«Sono qui perché credo che i prodotti di Facebook danneggino gli adolescenti, seminino divisioni e indeboliscano la nostra democrazia». È quanto ha affermato ieri in audizione al Senato statunitense l’ex product manager di Facebook Frances Haugen, la talpa che ha rivelato le opacità del social. «La leadership della compagnia sa come rendere Facebook e Instagram più sicuri – ha aggiunto l’ex dipendente – ma non vuole fare i necessari cambiamenti perché ha messo i suoi astronomici profitti davanti alla gente e ha scelto di crescere ad ogni costo».

Le prove dei profitti di Facebook sull’odio

Haughen è colei che ha fornito al Wall Street Journal i documenti interni che hanno mostrato uno spaccato finora segreto di Facebook, in cui il discorso d’odio e il litigio tra diversi utenti viene addirittura incentivato dall’algoritmo allo scopo di fare profitto e monetizzare attraverso le inserzioni pubblicitarie.
«Che il business model di Facebook sia basato sulla monetizzazione del discorso d’odio, sulla trasformazione del conflitto in attenzione pubblicitaria, è già risaputo – osserva ai nostri microfoni Carlo Gubitosa, giornalista, scrittore e fondatore della piattaforma sociale.network – Ciò che è nuovo è la presenza di documenti interni all’azienda che danno un’ulteriore prova».

Il funzionamento discutibile di Facebook era già stato denunciato da altri dipendenti e dai loro leaks ma, in assenza di prove documentali, su di loro poteva sempre aleggiare il sospetto che fossero mossi da rancore o secondi fini.
Per contro, la risposta della dirigenza del social fondato da Mark Zuckerberg suona come una difesa d’ufficio: «Ogni giorno i nostri team devono trovare un equilibrio tra garantire la libertà di espressione di miliardi di persone e mantenere la nostra piattaforma un luogo sicuro e positivo. Continuiamo ad apportare miglioramenti significativi per contrastare la diffusione della disinformazione e dei contenuti dannosi. Affermare che incoraggiamo la diffusione di questi contenuti e che non prendiamo provvedimenti è semplicemente falso».

Lo scandalo di Cambridge Analytica, con l’acquisto di profili di migliaia di cittadini per condizionare gli esiti elettorali, o altre vicende analoghe hanno già mostrato uno dei meccanismi con cui Facebook sfrutta le attività dei suoi utenti a scopi commerciali.
Quanto al discorso d’odio utile a monetizzare, Gubitosa fa una metafora: «Immaginate un pranzo di Natale, in cui il nonno fascista, magari avendo bevuto un bicchiere di troppo, inizia a spararle grosse. In un ambiente sano la sua posizione viene messa ai margini, concentrandosi su argomenti che favoriscono l’armonia. Su Facebook avviene l’esatto contrario».

Sul social di Zuckerberg i contenuti postati dall’utente vengono appositamente filtrati in modo che maggiore visibilità sia ottenuta da ciò che può generare conflitto, bisticcio, polemica o indignazione.
Ciò scatena engagement attraverso condivisioni, like, commenti e litigi tra le persone, «tutto ciò che fa montare la panna di un dibattito e può essere utilizzato per fini pubblicitari o manipolatori», sottolinea il giornalista.

Oltre alla metafora del pranzo di Natale, Gubitosa fa un parallelo con i talk show televisivi, dove i format mediatici non sono pensati per un reale confronto sano fra posizione anche diverse o opposte, ma sono funzionali al sensazionalismo e alla polemica che favorisce lo share.
«Se nella tv il contenitore, il format, a prescindere dal contenuto è funzionale agli interessi di governo o di qualche azienda – spiega il fondatore della piattaforma sociale.network – su Facebook l’interesse predominante è quello dell’inserzionista».

Le armi spuntate della politica

L’aumentare del discorso d’odio in ambito sociale ha portato spesso il legislatore ad immaginare o ad arrivare a promulgare leggi che lo puniscano. Provvedimenti che, però, non sembrano incidere particolarmente su Facebook ed altri colossi del genere.
«C’è poca cultura della rete – lamenta Gubitosa – per cui ci sono reazioni scomposte, come la richiesta di schedare gli utenti dei social, che sono contrarie al diritto all’anonimato, cioè che quel diritto che mette al riparo da persecuzioni per le proprie opinioni».

La pretesa di normare le attività di un’azienda che ha la sede fuori dai propri confini nazionali, dunque, non può funzionare. Per contro, però, si chiudono gli occhi verso esperienze diverse, pensate per favorire una comunicazione sana tra le persone.
«Uno Stato a tutela dei propri cittadini potrebbe e dovrebbe creare spazi di comunicazione non funzionali al profitto, ma funzionali all’interesse pubblico – osserva il giornalista – Questo ruolo non è ricoperto da un dibattito culturale a sinistra, né da un’attività governativa. È coperto come al solito dagli hacker e dal software libero, che sviluppa programmi come Mastodon o reti come Fediverso».

ASSCOLTA L’INTERVISTA A CARLO GUBITOSA: