La regista argentina Lola Arias ha debuttato all’Arena del Sole con il suo spettacolo dedicato al tema della maternità realizzato in due anni tra ricerca e prove con un gruppo formato da donne, uomini, trans portatori e portatrici di storie analizzate in una sorta di teatro anatomico come indagine per comprendere la realtà della riproduzione nel XXI secolo.

Lingua madre come teatro anatomico per le indagini

Fino al 14 ottobre è in scena all’Arena del Sole lo spettacolo d’apertura della nuova stagione teatrale della regista argentina Lola Arias, una prima assoluta dedicata ad una riflessione sulle tante possibilità di essere madri e padri oggi, un testo frutto di una scrittura collettiva in cui entrano storie personali abilmente avviluppate a riflessioni frutto dello studio di un’ampia gamma di documenti e di discussioni con esperti ed esperte in diversi campi, dall’antropologia al diritto, passando per la storia dei movimenti femministi, alla medicina. La ricerca è durata due anni coinvolgendo studiosi/e insieme a donne e uomini della città come profondo lavoro di indagine sulle possibili pratiche di procreazione nel XXI secolo.

Lingua Madre è uno spettacolo immaginato come presentazione di una camera delle meraviglie, una sorta di teatro anatomico per condurre un indagine sul diritto alla maternità e alla paternità come anche al diritto di scelta di non essere madri e padri. Si intrecciano vite vissute e temi fortemente politici: l’aborto, il diritto all’autodeterminazione delle donne, l’adozione, la contraccezione, la richiesta di diritto alla maternità e alla paternità per tutte le soggettività e quindi per coppie omosessuali, lesbiche, per trans e la conseguente attesa di riconoscimento di diritti ai figli e figlie di tutti questi soggetti che lottano costantemente con un sistema legislativo e burocratico che ostacola la loro quotidianità.

Lo spettacolo è insieme documentaristico e poetico. Il racconto di vicende intime e dolorose è impreziosito da immagini potenti della città di Bologna. Come enciclopedia della riproduzione nel nostro secolo non potevano non esserci riferimenti agli studi scientifici condotti nella nostra città proprio sulla maternità, sulla gestazione le cui tracce sono raccolte nel museo di Palazzo Poggi. Forcipi ed altri strumenti utili al parto insieme a vasi contenenti organi riproduttivi in formalina, sono ben visibili nella scenografia, i modellini dei feti nell’utero nei suoi diversi stadi campeggiano sullo schermo mentre le e gli interpreti, indossando pance finte, fanno la haka come simbolico rituale di potenza e determinazione. Le immagini della straordinaria biblioteca universitaria fanno da sfondo al primo capitolo del percorso teatrale dedicato all’educazione sessuale che per tanti e tane avviene proprio attraverso la consultazione di vocabolari, enciclopedie, libri illustrati. Dipinti di madonne e santi in cieli stellati del nostro patrimonio artistico cittadino alleggeriscono il clima quando i e le protagoniste affrontano il tema dell’ingerenza della religione nell’educazione sentimentale e sessuale dei e delle giovani, mentre immagini di manifestazioni femministe del passato e del presente rafforzano il racconto delle storiche lotte delle donne per ottenere una legge che consentisse l’aborto libero, sicuro e gratuito.

Tanti i temi affrontati dallo spettacolo che si presenta a tratti come un’assemblea di attivisti/e, una seduta di autocoscienza o una cena tra amici in cui si parla delle proprie vite ed esperienze e ci si racconta, senza veli come si è diventati madri o padri o di come si sia scelto di non volerlo essere. Il tema del rifiuto della maternità è presente con forza tanto quanto quello della lotta per diventare madri o padri praticando la fecondazione assistita o ricorrendo alla gestazione per altri all’estero o adottando figli e figlie dei propri partner o ancora di altri i cui genitori biologici, per tante intricate ragioni, non possono più far loro da madre o da padre. Lo spettacolo rompe il tabù del rifiuto della maternità, del rifiuto di svolgere il lavoro riproduttivo e di cura come anche rompe un altro tabù dando parola al dolore delle madri, alla disperazione delle madri contro il cliché della felice maternità.

I capitoli in cui è articolato il racconto enciclopedico della riproduzione, sono intervallati da splendidi momenti musicali. Emoziona Like a virgin a sole voci tanto quanto lo Stabat mater, diverte la versione rock femminista di Son tutte belle le mamme del mondo e commuove il filmato della danza con una scatola, su musica bachiana, di un bambino che riesce a incanalare in un gesto che diventa artistico, la sua energia rabbiosa dovuta a una rara malattia neurologica.

Lo spazio scenico è definito da una parete a libreria colmo, oltre che di libri, di oggetti intriganti: parrucche, manichini, strumenti medici, animali impagliati, mappamondi e i già ricordati barattoli di materiali organici come oggetti di studio. In questo gabinetto scientifico si muovono donne e uomini non tutti con percorsi teatrali alle spalle, di diversa provenienza geografica, con esperienze lavorative e di vita molto differenti che, anche grazie al tempo “supplementare” concesso dalla pandemia, a causa della quale il debutto è stato ritardato, hanno maturato anche sotto il profilo di resa teatrale. La regista Lola Arias sottolinea il difficile lavoro sulla vocalità che il gruppo ha dovuto affrontare per arrivare ad un alto livello qualitativo nel canto polifonico a cappella. La scrittura teatrale è stata tessuta come un lavoro a più voci in cui ogni parola è stata negoziata e soppesata in un continuo rimando di traduzione tra italiano e spagnolo e dalle esperienze personali al generale. In questo percorso drammaturgico il privato diventa pubblico e il politico entra nel quotidiano di ciascuno/a. Il lavoro di cesello sul versante musicale ha costruito uno spazio sonoro in cui si sublimano le narrazioni intime per assurgere a un livello ulteriore di proiezione in un mondo altro di armonica convergenza tra le soggettività che crea la premessa alla verbalizzazione di un possibile futuro differente tutto da immaginare e costruire con i pezzi ricombinati variamente del nostro passato (da qui il gioco finale del travestimento e dell’uso fantasioso degli oggetti parte della scenografia). L’obiettivo, riuscito a mio avviso, di Lola Arias e del suo team di lavoro, è stato quello di suggerire agli spettatori e alle spettatrici l’ipotesi della possibilità di produzione di un immaginario nuovo del procreare e del non procreare e l’ipotesi di un’idea altra della famiglia, forse da abolire completamente (afferma Arias durante l’incontro con il pubblico dopo il debutto), o comunque da reinventare usando il materiale umano, il portato di pensiero, gli strumenti e le idee oggi disponibili, un esperimento sociale da compiere ora collettivamente sulla spinta della visione teatrale.