Si trova appena sotto il deserto del Sahara e non a caso il suo nome, in arabo, significa “bordo del deserto”. Ma la regione africana del Sahel non è rovente solo dal punto di vista climatico, anche se proprio lì si concentrano alcuni degli effetti più disastrosi del surriscaldamento globale. Di Sahel sentiamo parlare anche per colpi di Stato, jihadismo, conflitti bellici, traffico di droga, rotte migratorie e neocolonialismo. Eppure in Italia se ne parla troppo poco, nonostante i governi europei, compreso quello italiano, abbiamo grandi interessi in quell’area.
All’edizione 2021 del Festival di Internazionale è stato presentato “Il grande gioco del Sahel – Dalle carovane di sale ai Boing di cocaina” (Bollati Boringhieri), il libro di Marco Aime e Andrea De Georgio.

Sahel, una regione al centro di diversi interessi

Miscelando un approccio antropologico ad uno geopolitico, così come da formazione dei due autori, il libro di Aime e De Georgio sul Sahel racconta il complicato intreccio di interessi, problemi e anche disastri che si accavallano nella regione africana, spesso facendo schizzare tensioni di natura esogena.
Se, da un lato, nel Sahel, a causa delle scarse piogge, è sempre esistito un conflitto tra pastori e contadini, negli ultimi anni gli scontri si sono trasformati in veri e propri eccidi, anche a causa dell’intreccio delle questioni territoriali con il nuovo jihadismo.

Ma il Sahel è diventato anche una tappa del traffico di droga proveniente dall’America Latina e destinato all’Europa. Nel 2009 un Boeing 727 è atterrato in pieno deserto, su una pista d’atterraggio fai-da-te. Il velivolo, ribattezzato «Air Cocaine», trasportava diverse tonnellate di cocaina destinate al Vecchio Continente.
L’Europa, dal canto suo continua ad avere grandi interessi nella regione. In particolare una grande potenza coloniale come la Francia si devono misurare con i nuovi piani espansionistici della Cina, una forma di neocolonialismo.

Gli interessi dell’Europa per esternalizzare le frontiere

Ma l’Europa si rivolge al Sahel anche per esternalizzare le proprie frontiere, come testimoniano gli accordi fatti col governo del Niger per bloccare i flussi migratori o i fondi per la cooperazione e lo sviluppo che proprio l’Ue subordina al blocco delle rotte migratorie. «Esiste un fondo che complessivamente si aggira sui 4,5 miliardi di euro, spacciati per aiuti umanitari – osserva ai nostri microfoni De Georgio – distribuiti a tutti questi Paesi di origine e transito dei migranti proprio per bloccare i flussi migratori».
Il risultato è visibile nella città di Agadez, in Niger: da porta del deserto, la città si è trasformata «in uno dei grandi cimiteri di migranti, così come tutto il Sahara».

Per garantirsi gli aiuti economici, i Paesi africani del Sahel sono stati costretti anche a violare alcune norme interafricane, come quelle che permettevano la libera circolazione delle persone all’interno dei diversi Stati.
«La legge 36 del 2019 imposta in Niger – continua De Georgio – viola palesemente i protocolli dell’area Cedeao Ecowas e criminalizza l’aiuto alle persone in transito ancor prima di arrivare alla frontiera con la Libia, violando dei diritti umani inalienabili».

La questione del neocolonialismo cinese

Nella regione del Sahel da tempo la Cina ha intrapreso politiche neocolonialiste, che sono riuscite a radicarsi meglio proprio perché attuate in modo diverso rispetto a quella delle vecchie potenze coloniali, come la Francia.
«In Italia e in Europa si sente lo sdegno verso il colonialismo cinese in Africa – osserva De Georgio – quando in Italia soprattutto, ma anche in Europa, non si è ancora fatto i conti col retaggio coloniale e quanto noi abbiamo lasciato di negativo in quei Paesi».

Per lo studioso, la Cina non ha fatto altro che imparare dal modello coloniale occidentale, europeo in particolare, ma presentandolo meglio, dal momento che la percezione delle popolazioni africane interessate dai progetti di Pechino è quella di essere considerate partner economici, quindi da pari, e non più col paternalismo che è stata la cifra caratterizzante del colonialismo europeo.

Il fermento dei giovani africani

Nei Paesi africani in generale, ma negli Stati del Sahel in particolare, la popolazione è molto giovane. Poco meno del 50% degli abitanti ha meno di 18 anni.
«Sono giovani molto spesso inurbati – osserva ai nostri microfoni Marco Aime – che vivono connessi in rete, esattamente come un qualunque giovane occidentale. E sono proprio loro a dare vita a nuovi laboratori sociali e politici e ad inventarsi nuove attività lavorative».
Per l’antropologo, quindi, le innovazioni arriveranno sicuramente da questa nuova generazione di africani, abbastanza colti e inurbati.

È proprio dal basso e dalle nuove generazioni, infatti, che vengono portate avanti alcune istanze politiche, come la lotta ai cambiamenti climatici che nel Sahel colpiscono duro a causa della fragilità del territorio stesso, ma generando anche tensioni e conflitti tra gli abitanti che cercano di sopravvivere. Tensioni che spesso sono un’ottima occasione per il jihadismo per fare proseliti e lanciare un attacco ai governi locali, spesso incapaci di gestire la situazione.

ASCOLTA L’INTERVISTA A MARCO AIME E ANDREA DE GEORGIO: