Contano i prodotti e le merci per gli inventari delle aziende, ma svolgono il loro lavoro in condizioni assolutamente precarie, con una lunga serie di irregolarità contrattuali. Sono gli inventaristi e le inventariste che lavorano per Rgis, una multinazionale presente in tutti i continenti e da dieci anni anche in Italia, dove offre il servizio di inventario alle catene della Gdo.
Ora, però, le lavoratrici e i lavoratori stanno alzando la testa, anche se la paura di ritorsioni e di perdere il lavoro è tanta e ciò è l’ennesimo indizio di quanto le aziende abbiano potestà di decidere liberamente le sorti delle persone.
Inventaristi a chiamata, gli stessi metodi del delivery ma senza app
«Siamo un gruppo di inventaristə in rivolta – scrivono in un comunicato sindacale le lavoratrici e i lavoratori di Rgis – Lavoriamo nei negozi dopo la chiusura o prima dell’apertura e contiamo le merci con una macchinetta. Gli inventari non si fanno quasi mai nelle nostre città, quindi ci spostiamo facendo trasferte, anche lunghe, su mezzi noleggiati dall’azienda e guidati per lo più da noi. Chi ha ruoli di maggiore responsabilità, nei periodi di maggior lavoro arriva a lavorare anche sette giorni su sette e anche per molto più di dieci ore al giorno. Questo naturalmente non viene fatto risultare in busta paga ma è così. In tutto questo si guida anche, con il rischio di fare incidenti per stanchezza o anche per una cattiva manutenzione del mezzo a lungo noleggio».
La lista delle violazioni o irregolarità contrattuali, però, è appena all’inizio. Un altro problema, infatti, è il mancato riconoscimento delle trasferte da parte della multinazionale. «L’azienda nei contratti inserisce la sede del distretto, ma noi non lavoriamo lì. In questo modo non ci viene pagata la diaria».
Anche l’inquadramento contrattuale non è corretto. Inventaristi e inventariste vengono inquadratə come operai di sesto livello, quello più basso, e ciò avviene anche per chi ha ruoli di responsabilità, come chi guida i mezzi, chi gestisce le squadre o chi supervisiona l’inventario.
Le ore di lavoro notturno non vengono retribuite come da contratto nazionale, ma un forfait, le pause non vengono pagate, chi lavora ha uno standard di pezzi da contare all’ora sulla base del quale l’azienda stabilisce una sorta di ranking, ma il ricatto si concretizza nella tipologia di contratto. «Abbiamo quasi tuttə contratti a chiamata che prevedono la conversione del contratto in un full time a tempo indeterminato una volta raggiunte le 400 giornate lavorative nel corso di tre anni consecutivi – si legge nelc comunicato – ma Rgis fa in modo che a queste giornate non ci si arrivi: in prossimità del loro raggiungimento l’azienda rallenta o interrompe le chiamate, lasciando chi lavora in un limbo dove non si guadagna più nulla o non si guadagna a sufficienza per alcunché. A pochissime persone viene concesso un bislacco contratto part time a 600 ore. Quando le 600 ore vengono superate non è infrequente che l’azienda somministri adeguamenti contrattuali retroattivi per non pagare gli straordinari».
Negli ultimi mesi Slang-Usb ha iniziato a dare supporto alle lavoratrici e lavoratori ed è iniziato un percorso di sindacalizzazione. Il clima di precarietà, osserva il sindacato di base, è «alimentato dal largo uso di contratti a chiamata, che rendono difficile sia raggiungere una stabilità lavorativa (in particolare per i moltissimi dipendenti giovani) sia mettersi in posizione di far valere i propri diritti. Un sistema per certi versi simile a quello dei rider, anche se in mancanza di un’app. L’azienda ha un grosso bacino di dipendenti a chiamata, che ottengono più lavoro quanto più sono produttivi, mentre tanti rimangono penalizzati».
Dinamiche che permettono all’azienda di fare il bello e il cattivo tempo. «Rgis può permettersi semplicemente di non chiamare più a lavorare chi alza la testa con la scusa dei cali della richiesta di lavoro – sottolinea Slang-Usb – e questo mette in difficoltà chi decide di chiedere ciò che gli spetta».
«Col sindacato abbiamo chiesto un incontro all’azienda, ma fino a questo momento non sembra prenderci molto sul serio – osserva ai nostri microfoni una lavoratrice – Noi chiediamo banalmente ciò che è giusto. Io ricopro anche la mansione di autista, quindi ho la responsabilità del mezzo, ma soprattutto della vita dei miei colleghi. Però non sono ufficialmente riconosciuta come autista, quindi se faccio un incidente perché magari sono stanca, visto che alcuni giorni stiamo in ballo anche 13 o 14 ore, se succede qualunque cosa la responsabilità è solo mia».
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