Matt Groening, il celebre padre di “The Simpsons” ci ironizzava ormai decenni fa, ma al tempo stesso pareva mettere in guardia sui rischi connessi all’energia nucleare. Dal pesce a tre occhi che nuotava in acque contaminate da scorie radioattive al “tomacco”, un incrocio tra pomodoro e tabacco, ottenuto sempre con gli scarti del nucleare, che aveva un sapore pessimo ma dava assuefazione.
Oggi la realtà supera la fantasia del cartone animato dal momento che il Giappone ha iniziato le operazioni di scarico nell’oceano pacifico delle acque contaminate della centrale nucleare di Fukushima, colpita duramente dal sisma del 2011.

Il dogma del nucleare e la negazione dell’evidenza

Quel grave incidente nucleare aveva avuto una risonanza globale, al punto da aiutare il “No al nucleare” del referendum italiano proprio del giugno 2011. Ciononostante il nucleare si ripropone ciclicamente, come una peperonata non digerita, nel dibattito pubblico, specialmente in occasione di crisi energetiche provocate dalla speculazione.
I sostenitori dell’energia nucleare, che in Italia sono trasversali agli schieramenti politici, parlano sempre di impianti di nuova generazione e vaneggiano di fusione, contrapponendola all’attuale e pericolosa fissione. Solo che la tecnologia evocata non esiste, se non in impianti sperimentali, e il cosiddetto “nucleare pulito” ancora non esiste.

Come va di moda oggi a proposito di molti argomenti, chi non si allinea al pensiero nuclearista viene dipinto come un troglodita ignorante, legato a ideologie del passato e portatore di convinzioni superate dalla tecnica.
Eppure la gestione delle scorie radioattive è un tema che investe molti ambiti della vita. Non riguarda solamente lo stoccaggio e i rischi ad esso connessi, non riguarda solo la contaminazione e la salute, ma anche l’economia, la biodiversità, i diritti delle comunità.

La scelta dello scaricabarile radioattivo di Fukushima e le reazioni

La decisione del governo Giapponese e della Tokyo Electric Power Company, l’azienda privata che gestisce la centrale nucleare dismessa di Fukushima, viene criticata aspramente non solo dagli ambientalisti, ma anche da alcuni scienziati che evidenziano come non siano stati calcolati tutti i rischi connessi al rilascio dell’acqua radioattiva in oceano.
Greenpeace, in particolare, contesta ciò che il governo nipponico e la Tepco sostengono, cioè che non vi sia alternativa allo scarico delle acque radioattive in mare e che l’operazione sia un passo necessario per lo smantellamento stesso della centrale.
«Nei prossimi anni – scrive Greenpeace – altre decine di migliaia di tonnellate di acqua contaminata continueranno infatti ad accumularsi senza alcuna soluzione efficace».

Gli ambientalisti scendono nel dettaglio, sostenendo che il 3 agosto scorso risultavano stoccati nei serbatoi 1.343.227 metri cubi di acque reflue radioattive, ma a causa del fallimento della tecnologia di trattamento “Advanced Liquid Processing System”, circa il 70% di queste acque dovrà essere nuovamente trattato. «Diversi scienziati hanno avvertito che i rischi radiologici derivanti dal rilascio di acqua contaminata non sono stati completamente valutati – insiste Greenpeace – e che gli impatti biologici degli elementi radioattivi che saranno scaricati in mare (trizio, carbonio-14, stronzio-90 e iodio-129) sono stati ignorati».

Ad opporsi allo sversamento, però, è anche l’U.S. National Association of Marine Laboratories (NAML), che riunisce un centinaio di istituzioni scientifiche americane che si occupano di ambiente marino, secondo cui il piano proposto «è una questione transfrontaliera e transgenerazionale che pone preoccupazioni per la salute degli ecosistemi marini e delle persone che da essi dipendono».
La Corea del Sud ha espresso la preoccupazione che l’acqua trattata potrebbe avere impatti inesplorati sull’ambiente marino, mentre dubbi sull’efficacia del trattamento prima del rilascio sono stati espressi da diversi scienziati, tra cui Robert Richmond, biologo marino presso l’Università delle Hawaii a Manoa.

Proteste arrivano anche dalla Cina, che pure utilizza sul suo territorio la tecnologia nucleare e ha diverse centrali. Per Pechino, infatti, quella del Giappone è una mossa «estremamente egoista e irresponsabile». In particolare, lo stesso governo cinese sostiene che non ci sono stati né precedenti né standard universalmente riconosciuti per lo scarico di acqua contaminata in mare. Il rischio è quello di un nuovo disastro ai danni di popolazione locale e mondo intero. Il governo di Tokyo, è l’accusa di Pechino, «non è riuscito a dimostrare la legittimità e la legalità della decisione sullo scarico, l’affidabilità a lungo termine dell’impianto di depurazione, e l’autenticità e l’accuratezza dei dati sull’acqua contaminata dal nucleare. Non è riuscito a dimostrare che gli scarichi oceanici siano sicuri e innocui per l’ambiente marino e la salute delle persone, e che il piano di monitoraggio sia valido ed efficace».

Il meno peggio e il problema a monte del nucleare

La tesi del Giappone per giustificare la scelta dello scaricabarile radioattivo riguarda piuttosto i rischi del non farlo. Qualora vi fosse un nuovo terremoto o un tifone, l’acqua radioattiva presente a Fukushima potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza in modo assai più significativo che attraverso il rilascio delle acque nell’oceano.
Una sorta di male minore, quindi, che rappresenta il cul de sac in cui il nucleare ha cacciato non solo il Giappone, la Tepco o l’oceano Pacifico e i Paesi vicini, ma tutta l’umanità.

Forse allora chi si oppone al nucleare non è automaticamente un sostenitore del locomotore a carbone, né si illude che qualche pannello solare basti a realizzare la transizione energetica. Magari l’impatto del nucleare andrebbe calcolato in modo più organico e serio, anche alla luce dei disastri registratisi nella storia, da Chernobyl a Fukushima, le cui conseguenze non si sono ancora completamente manifestate.