La notizia è stata data con un grave allarme dai meteorologi un paio di giorni fa: lo zero termico italiano ha toccato un nuovo record, attestandosi a 5328 metri. La rilevazione è stata effettuata alla stazione di radiosondaggio di Novara Cameri e segna un primato assai negativo. Poiché le montagne italiane sono tutte più basse, infatti, significa che i ghiacciai presenti sono destinati a sciogliersi, anche quelli secolari.
Parlando sempre di temperature, in montagna la colonnina di mercurio ha segnato valori impressionanti, come 39 gradi a 900 metri e 23 gradi a 2100 metri.

Il record di altitudine per lo zero termico va inserito in un quadro di rilevazioni che negli anni ha mostrato oscillazioni, ma che nell’ultimo biennio, il 2022-2023, ha visto innalzarsi la quota per l’esistenza stessa dei ghiacciai. L’anno scorso, infatti, lo zero termico nell’ultima settimana di luglio si attestava sui 5184 metri di altitudine, mentre lo scorso luglio a 5298 metri, con un balzo di circa 1300 metri rispetto al 2019.
L’ulteriore triste novità del 2023 è il caldo torrido e persistente anche dopo ferragosto, quando solitamente le temperature iniziano a scendere. Di qui il record di 5328 metri.

Cos’è lo zero termico e perché non è bene che sia troppo alto

«Lo zero termico è un parametro meteorologico che indica la temperatura nella libera atmosfera – spiega ai nostri microfoni Umberto Morra di Cella, ricercatore di Fondazione Cima – e dà un segnale sullo stato termico dell’atmosfera alle diverse quote».
Perché ciò rappresenta un problema? «I ghiacciai e altre componenti della criosfera, cioè la parte della terra che è interessata dalla presenza di ghiaccio, sono sensibili alle temperature – osserva il ricercatore – Quando le temperature sono sopra lo zero l’acqua fredda è soggetta a fusione e pertanto cambia lo stato. Uno zero termico a quote molto elevate si traduce in un impatto rilevante, perché tutti gli apparati, anche quelli alle quote maggiori che solitamente non sono sperimentano queste dinamiche, sono soggetti a fusione, quindi perdono massa».

Nei giorni scorsi si è detto che il processo che potrebbe portare alla completa sparizione dei ghiacciai in Italia avrebbe una durata di ottant’anni. «Sono dinamiche abbastanza lente, ma gli impatti sono invece molto rapidi – mette in guardia Morra di Cella – Noi stiamo registrando sui ghiacciai alpini delle fusioni orarie mai viste prima. A 3500 metri, dove si collocano i ghiacciai italiani più alti, quelli che dovrebbero essere meno intaccati da questo impatto, perdiamo fino a tre centimetri di ghiaccio al giorno di spessore. E proprio perché lo zero termico è molto alto in quota, la perdita non si ferma di notte, cioè non avviene quel fenomeno che solitamente dopo ferragosto si manifesta, cioè il rigelo notturno. Con questo caldo, che oltre ad essere intenso è persistente, la fusione è sostanzialmente permanente».

Cosa significa vivere in un Paese senza ghiacciai

I ghiacciai sono un magazzino della risorsa idrica e rilasciano progressivamente, nel corso dell’anno, l’acqua stoccata sotto forma di neve nell’ultima stagione invernale, ma accumulata anche in decenni o secoli. «Fusioni molto intense si traducono nella progressiva riduzione di questo magazzino – sottolinea il ricercatore della Fondazione Cima – Se in un primo momento può esserci un impatto positivo per i territori a valle, con un aumento rilevantissimo dei deflussi sul reticolo superficiale, cioè i torrenti e i fiumi che garantirebbe un approvvigionamento idrico anche nei mesi più caldi, il problema però è rappresentato dal depauperamento di una risorsa fondamentale, soprattutto in questo momento di anni consecutivi molto caldi».

Nel medio e lungo termine, quindi, la fusione dei ghiacciai fino alla loro scomparsa e il progressivo svuotamento dei corsi d’acqua potrebbe rappresentare un vero e proprio sconvolgimento del mondo per come lo abbiamo conosciuto.
«È il grosso tema che si discute in questi anni – osserva Morra di Cella – La siccità che abbiamo sperimentato di recente ha finalmente ma tardivamente aperto gli occhi a tanti comparti che sono interessati dalla risorsa idrica. Questo pone delle problematiche sia per i ricercatori come noi, che devono misurare e modellare il futuro di questa risorsa, sia per gli utilizzatori, anche per i conflitti nuovi che si stanno ponendo. Se c’è meno acqua bisogna mettere d’accordo i diversi utilizzatori, dall’agricoltura alla produzione idroelettrica di energia, dal consumo umano all’industria, in modo che ce ne sia per tutti».

ASCOLTA L’INTERVISTA A UMBERTO MORRA DI CELLA: