5 poliziotti agli arresti domiciliari e altri 17 indagati (ma gli agenti coinvolti sono almeno 23) all’interno di un’inchiesta per pestaggi e torture nella questura di Verona. Nella ricostruzione dell’indagine della Procura, durata otto mesi, emerge che gli accusati si accanivano con botte e umiliazioni di varia natura soprattutto su senzatetto e persone straniere, rivelando anche la matrice razzista del proprio operato. È questo l’ennesimo caso di abusi in divisa registrato in Italia.
Oltre alla tortura, ai cinque sono stati contestati, a diverso titolo, anche i reati di lesioni, falso, omissioni di atti d’ufficio, peculato e abuso d’ufficio.

Tortura, omertà e guerra ai poveri: gli ingredienti del caso che ha investito la polizia di Verona

«Purtroppo questo nuovo caso ci ripete un copione che noi abbiamo imparato a leggere in quasi tutte le storie di mala-polizia in cui ci siamo imbattuti», commenta ai nostri microfoni Checchino Antonini, giornalista ed esponente di Acad, Associazione contro gli abusi in divisa. A colpire Antonini, oltre alla violenza e alla tortura attribuite ai responsabili, è «il corpaccione molle che assiste senza dire nulla», rappresentato da decine di colleghi.
La ricetta alla base di questi casi, dunque, è sempre la stessa: «una violenza che fa parte di una cultura profonda che è radicata nei comportamenti delle persone che in questo Paese indossano una divisa e sadismo, razzismo, tortura e falso sono gli ingredienti di molti ingredienti di casi di questo tipo».

Ma per Antonini nelle ultime settimane si è registrato uno scatto ulteriore. Il giornalista ed esponente di Acad mette in relazione il caso di Verona con quanto accaduto a Milano, dove alcuni agenti di polizia municipale hanno pestato una donna trans, e quanto accaduto a Livorno, dove un carabiniere ha dato un calcio in testa ad un uomo già immobilizzato a terra. «Questi sono solo alcuni dei casi che avvengono – sottolinea Antonini – perché molti non riescono a conquistare le prime pagine».
Ma ciò che li accomuna è la violenza contro le persone povere. «Quindi possiamo dire che settori di polizia sarebbero in prima linea nella guerra ai poveri scatenata dalla stessa cultura politica che oggi nei piani alti dei governi».

Il problema, dunque, è una «sottocultura pervasiva che alberga dentro le forze dell’ordine», ma che in questo periodo «vive una sorta di libera uscita perché al governo ci sono quei personaggi che in maniera esplicita si sono battute persino contro misure timidissime come la legge contro la tortura del 2017», osserva l’esponente di Acad.
Anche alcune delle contromisure proposte per evitare il ripetersi di casi di abusi in divisa, in realtà, mostrano ambiguità e sembrano assolvere culturalmente le forze dell’ordine. In particolare, sulla scia di quanto avviene negli Stati Uniti e altri Paesi, è stato proposto di dotare gli agenti di una bodycam per riprendere le operazioni compiute. La bodycam, però, riprende la scena dalla prospettiva dell’agente.

Ben altra misura, chiesta da tempo e mai presa in considerazione da alcun governo, è il codice alfanumerico identificativo sulle divise degli agenti, in modo da dare la possibilità alle eventuali vittime di identificare l’autore degli abusi e rompere il muro di omertà e corporativismo che si innalza spesso a difesa delle forze dell’ordine.
A monte di tutto ciò c’è un lavoro culturale, che può essere espresso nel momento della formazione delle forze dell’ordine, ma per Antonini l’unico antidoto agli abusi in divisa resta «una vigilanza continua, una controcultura della democrazia che combatta la violenza e riesca a incrinare quell’opacità che circonda i corpi armati e le forze dell’ordine in questo Paese».

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