Per la prima volta una comunità nigeriana, gli Ikebiri, porta a processo in Italia Eni per un incidente petrolifero che ha inquinato i terreni sul delta del Niger. E per la prima volta un tribunale italiano mantiene nel nostro Paese il procedimento giudiziario. Dopo il processo per la maxi-tangente per il giacimento OP245, una nuova grana giudiziaria per la multinazionale petrolifera. La ricostruzione del giornalista Lorenzo Bagnoli.

Nel 2010 uno sversamento di petrolio a Clough Creek, nello stato nigeriano del Bayalsa, lungo il delta del Niger, inquinò i terreni della comunità Ikebiri, che vive di pesca e agricoltura. L’incidente fu riconosciuto da Naoc (Nigerian Agip Oil Company), la controllata di Eni in Nigeria, ma sulla quantità di petrolio sversato, sulla quantità di danni prodotti e sulla conseguente bonifica, la posizione di Eni e quella degli Ikebiri divergono, al punto che è nato un contenzioso legale, che è sfociato nel processo iniziato a Milano lo scorso 9 gennaio.

Per la prima volta, infatti, la comunità, capeggiata dal re Francis Ododo e appoggiata dalla ong Friends of the earth, ha fatto un esposto in Italia nei confronti di Eni, sfiduciata dall’impossibilità di ottenere giustizia in Nigeria, come dimostrano diversi altri casi giudiziari precedenti.
Per la prima volta, inoltre, un tribunale italiano avvia il processo nel nostro Paese, nonostante la richiesta dei legali di Eni di spostare il procedimento in Nigeria per ragioni di competenza territoriale.
“Il ragionamento che sta dietro alla scelta del tribunale di Milano – spiega ai nostri microfoni Lorenzo Bagnoli, giornalista che ha seguito il caso per Osservatorio Diritti  – è che anche per un caso come questo la responsabilità è della casa madre della multinazionale”.

Dopo il processo per la maxi-tangente per la licenza del giacimento OP 245, sempre in Nigeria, con il rinvio a giudizio di Claudio Descalzi e Paolo Scaroni, Eni si trova dunque ad affrontare una nuova grana giudiziaria che riguarda il suo operato nel Paese africano.
L’incidente petrolifero oggetto di procedimento giudiziario non è il primo che si registra. Tra il 1992 e il 2000 avvennero altri incidenti sempre lungo l’oleodotto. Secondo i legali della comunità Ikebiri, però, è difficile che la giustizia nigeriana riesca a fare applicare le condanne, in particolare per quanto riguarda la bonifica delle zone inquinate.

Gli Ikebiri, infatti, sostengono che i barili sversati nell’incidente del 2010 siano stati 150 e non 50, come dichiarato da Naoc. E che i danni provocati, richiesti in sede giudiziaria, debbano ammontare a 2 milioni di euro, non i 6mila sborsati dalla società petrolifera. Infine la bonifica richiesta dovrebbe riguardare 17,5 ettari di terreni contaminati, contro i 9 che la multinazionale sostiene di aver inquinato e già bonificato.
“Il mantenimento del processo in Italia e la sua possibile evoluzione – osserva Bagnoli – potrebbe rappresentare un precedente importante”.

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