L’operazione di Genus Bononiae che ha sollevato le ire di Blu ed altri street artists rientra in una pratica rodata del potere per inglobare e disinnescare il dissenso attraverso la moda e il marketing. Questo meccanismo, che ha coinvolto rivoluzionari come il Che o correnti di pensiero come l’anarchia e il punk, però, con la mostra sui graffiti introduce un elemento nuovo, spostando dal corpo ai musei il veicolo di normalizzazione.

Il progetto di Genus Bononiae di staccare letteralmente i murales ed esporli dentro ad un museo, che ha sollevato la protesta di Blu e di altri street artists, ci racconta di una pratica assai rodata del potere per trasformare il dissenso in fenomeno di costume. Molti sono i casi, negli ultimi due secoli, di simboli della critica e della lotta al sistema di potere socio-politico-culturale che sono caduti vittima di operazioni il cui scopo essenziale era quello di svuotarli di contenuto ridurne la portata rivoluzionaria e antagonista.
Certo: la prima carta che gioca il potere è comunque quella della repressione. Così è stato anche nel caso che sta facendo clamore oggi. Da Bologna a Milano, passando per altre città dove le controculture sono ben radicate, abbiamo assistito a campagne antigraffiti, istituzioni che ingaggiavano e lodavano gruppi di cittadini per la ripulitura dei muri, sanzioni pecuniarie o penali ai danni dei writers.

Quando, però, il fenomeno non riesce ad essere contenuto con la repressione, quando questa non può spingersi oltre per non risultare troppo spropositata, quando il dissenso raccoglie un sufficiente favore da parte della popolazione, ecco che subentrano altri strumenti per disinnescare la minaccia al potere stesso.
La moda e il marketing, in questo senso, hanno sempre aiutato il potere quando si trovava in difficoltà. I loro meccanismi sono in apparenza meno violenti dei manganelli, ma probabilmente più pervasivi, poiché riconducono ai codici capitalistici e consumistici ciò che spesso era nato in contrapposizione e antitesi.

È quanto è successo a figure rivoluzionarie illustri, come Ernesto “Che” Guevara. La fotografia scattata al ribelle argentino il 6 marzo 1960 dal fotografo Alberto Korda e da questi regalata all’editore italiano Giangiacomo Feltrinelli è diventata una delle immagini più famose del secolo scorso, tanto da essere considerata la più riprodotta in assoluto della storia della fotografia.
Prima le bandiere, poi le magliette e le spille, indossate dai giovani di sinistra nei Paesi del “blocco occidentale”: una crescente tendenza che ha di fatto quasi completamente annichilito la forza di un simbolo anticapitalista, acerrimo nemico degli Stati Uniti fino all’anno scorso, quando è iniziato il disgelo con Cuba.
Il Che, grazie al marketing e alla moda, è così diventato un “generico rivoluzionario”, tanto da essere apprezzato anche da militanti dell’estrema destra.

Lo stesso può dirsi di uno dei simboli dell’anarchia, la A cerchiata. Per quanto lo spauracchio degli anarchici sia ancora un argomento che viene agitato dalle istituzioni per creare paura tra i cittadini, per quanto la repressione contro gli anarchici continui, vi è stato un tentativo, abbastanza riuscito, di sdoganare il simbolo per svuotarlo di significato. Così, da contrassegno ricavato da una massima di Proudhon (“la société cherche l’Ordre dans l’Anarchie”, dove la O e la A si uniscono fino a formare il simbolo), è diventato un gadjet per gli zaini e i cappotti degli studenti, o l’elemento decorativo delle loro t-shirt.

Il vestiario, l’abbigliamento è uno dei veicoli prediletti per operazioni di questo tipo, perché trasformano la persona in veicolo stesso di un’operazione pop nel senso peggiore. I jeans strappati, le giacche di pelle borchiate, gli anfibi del movimento punk o le camicie di flanella e i pantaloni tagliati sotto il ginocchio del grunge, tanto per fare alcuni esempi, sono stati interessati da meccanismi di questo tipo.
Dagli abiti, però, l’operazione di sdoganamento disinnescante, si è allargata ad altre forme, che in ogni caso utilizzano il corpo dell’individuo come strumento. È il caso di piercing e tatuaggi, che in origine avevano significati ben diversi da quelli odierni. O simboli di appartenenza, come nel caso di alcune tribù o della mafia giapponese, o marchi di stigma, come nel caso dei carcerati o degli internati nei campi di sterminio nazisti, i tatuaggi sono stati “normalizzati”, ancora una volta, dalla moda, come racconta un saggio dell’antropologa Alessandra Castellani.  

L’operazione di Genus Bononiae, quindi, introduce una novità. Non punta più al corpo, benché la controcultura della street art, del writing e dell’hip hop offrano una ricca gamma di spunti, in larga parte già utilizzati dalla moda.
L’invasività e l’arroganza del progetto è tale da costituire una nuova frontiera dell’inglobamento del dissenso da parte del potere. Chi ancora è restio a considerare la mostra in quest’ottica forse dovrebbe conoscere le dichiarazioni dei suoi curatori riportate ieri da un articolo del Corriere di Bologna .
Christian Omodeo: “Ho accettato di curare questa mostra (…) perché ci ho visto la possibilità di parlare di graffiti ma anche di un fantasma che agita questo ambiente fin dagli inizi: come portare l’estetica urbana in un contesto di galleria o museo, come mostrare al grande pubblico la street art e i graffiti che ormai si sono ‘istituzionalizzati’”.
Luca Ciancabilla: “Gli artisti possono dire la loro come meglio credono. Tuttavia continuo a non vedere dove sta il ‘peccato’: abbiamo sperimentato una tecnica vecchia di secoli su pitture murali in luoghi fatiscenti per salvarle e consegnarle ai posteri. C’è chi ci dice: bastava una foto. Sappiamo bene che in parte si perde il contesto, ma il nostro è un gesto di libertà quanto lo è quello del writer che realizza un graffito in un posto proibito”.