Un set ricco di idee, ben suonato e meglio orchestrato: un’occasione rara per ascoltare una grande orchestra all’altezza delle ambizioni
In una domenica piovosa si celebra al meglio la prima fase Premio Mutti del Bologna Jazz Festival
Apre il pomeriggio il “saggio” risultante dal workshop con i ragazzi del Conservatorio sotto la cura di maestri come Steve Lehman e Nicola Fazzini. Il musicista americano ha trascorso ore importanti con gli allievi, mostrando loro quanto vasto e ricco di possibilità possa essere il firmamento del jazz, mentre il sassofonista italiano ha curato la preparazione e l’orchestrazione degli spartiti dello stesso Lehman. Il risultato è un set che ha messo alla frusta i ragazzi, impegnati su tempi anomali che costringono gli assoli in accenti ed appoggi niente affatto scontati: ma Fazzini e la sua giovane band ne sono usciti bene, cosa per nulla scontata e motivo di giusto orgoglio per l’intera mission didattica.
Altro discorso quando scende in campo la Tower Jazz Composers Orschestra, big band maturata all’interno del Torrione Jazz Club di Ferrara che riunisce giovani ma già affermati talenti italiani.
Un largo organico musicale che presenta brani originali, tranne due cover di Zappa e Frisell e che porta a dirigere ila band con diversi suoi componenti. Soprattutto Santimonesale sul palchetto e in maniera appassionata detta i crescendi e i diminuendi ai soci d’avventura.
I pezzi presentati hanno il pregio di risultare pieni di idee e soluzioni creative, mostrando una forte conoscenza della tradizione jazzistica senza però cadere in una sindrome di pedissequa subalternità.
Naturalmente è difficile qui segnalare un solista i danni di un altro, perché tutti concorrono al risultato generale con grande generosità ed impegno. Inevitabile comunque porre l’orecchio alle variazioni di Filippo Vignato al trombone, di Sandro Tognazzo al flauto, di Alfonso Santimone al piano, di Marta Raviglia al canto, di Beppe Scardino al sax baritono e di un sax estremamente blues come quello di Piero Bittolo Bon.
Davvero un set convincente per una band che in un paio d’anni ha fatto passi da gigante e dà l’impressione di avere ancora ampi margini di crescita: una buona notizia per il jazz italiano.
Il pomeriggio musicale si conclude con la consegna delle pergamene ai due studenti del Conservatorio che più si sono messi in mostra in questi workshop e che, come premio, potranno partecipare ai corsi estivi della blasonatissima scuola di jazz di Siena. Unico neo della serata è stata l’abbondante pioggia che ha tenuto a casa parte del pubblico potenziale che ha perso un’ottima occasione di far conoscenza col futuro del jazz italiano
Il Canto di Claudia Strega il Torrione
recensione del concerto del Claudia Quintet del 31 ottobre 2017
Il ritorno al Torrione Jazz club di Ferrara del Claudia Quintet conferma tutte le qualità del gruppo già evidenziate nelle apparizioni precedenti. La formazione, con vent’anni di collaborazione alle spalle, presenta un interplay senza smagliature, una musica oliata alla perfezione dove i musicisti si intendono a meraviglia. Anche l’innesto dell’ancia di Jeremy Viner, al posto di Chris Speed, non ha certo danneggiato il risultato finale: molto disciplinato alla partitura al clarinetto, ben più esplosivo e convincente negli assoli di sax, in particolare sul brano dedicato algrande batterista Philly Joe Jones.
Il “la” alle songs arriva sempre da John Hollenbeck, batterista capace di scandire in modo millimetrico tutti i ritmi che costellano complessi le composizioni, con un susseguirsi di cambio di tempi che arricchisce davvero lo svolgersi del set. Il musicista ausraliano trascina la band in un sound fatto di tante atmosfere a confronto, e la band risponde assolutamnte all’altezza, a partire dall’ottimo vibrafonista Matt Moran dal tocco brillante, capace di sfruttare l’elemento “impressionistico” del suo strumento senza mai cadere nell’ovvio. L’impasto generale asume anche una vena malinconica con il timbro della fisarmonica di Red Wierenga, molto spesso all’unisono col clarinetto. Chiude l’invidiabile organico il basso di Adam Hopkins dalla cavata dolce e profonda. E’ lui a creare un intro ad effetto per una canzone lenta e struggente n cui il vibrafono di Moran vola costruendo dei veri e propri sospiri musicali.
Un sound leggibile ma al contempo complesso, un rapporto scrittura/assoli assolutamente calibrato, un esecuzione di prima qualità: ecco la difficile ricetta per questo concerto davvero costruito per palati fini.
I Crossroads di Steve Lehman al Bologna Jazz Festival
recensione del concerto di Steve Lehman & Sélébéyone all’Unipol Auditorium del 30 ottobre
L’Unipol Auditorium accoglie uno dei nomi più in vista della scena attuale del jazz: Steve Lehman, contraltista che ha attirato l’attenzione di pubblica e critica prima con un cd in ottetto meritevoei di mille premi iinternazionali e poi in trio, combinazione che ha palesato tutte le notevolissime qualità solistiche del saxofonista.
Oggi Lehman si è presentato con il suo nuovo progetto, un mixage di grammatica jazzistica e cadenza rap.
A tal fine si costruisce un sound basato su due voci rapper, quella in slang afroamericana(Hprizm) e quella in dialetto del Senegal (Gaston Bandimic). Un incrocio nell’incrocio, dove una via del jazz incontra quella delle dirty dozens e quella nord americana quella dell’Africa. Completano “l’heavy beat” rapper la ritmica di Drew Gress al basso e Jacob Richards alla batteria. A completare la combo le tastiere di Carlos Homs e il sax (bravo al soprano) di Maciek Lasserre.
La strada che unisce il ghetto di New York e la classicità del jazz è una via già battuta da altri campioni delle blue notes, in primis quello Steve Coleman della Mbase Music.
La peculiarità allora di questa intuizione lehmaniana sta nel linguaggio del sax così ancora fortemente legato al coolal cosppetto di un contesto popular che gli si muove intorno. L’eleganza di Lehman non teme di confrontarsi con l’esuberanza generale, in realtà sfruttando questa differenza di impatto per far risaltare una lucidità di improvvisazione, immergendosi nei ritmi della band ed emergendo con la qualità del suono. Bene anche i due vocalist che non risultano particolarmente invasivi nel sound complessivo, ma svolgono efficacemente il loro ruolo senza offuscare lo snodo della narrazione musicale.
Non dunque un rap educato, quanto un’educazione del jazz a nuove sonorità.
Non sappiamo se dopo questa scorreria in altre praterie sonore Steve Lehman tornerà su passi più legati alla tradizione, certo oggi possiamo apprezzare la duttilità di un artista che sa confrontarsi con l’altro da se’ senza perdere la propria identità.
Bassdrumbone e la semplicità di fare un ottimo jazz
recensione del concerto Bassdrumbone, Ferrara 28 ottobre 2017
Il Torrione Jazz Club di Ferrara apre i concerti in collaborazione col Bologna Jazz Festivalcol il collaudatissimo trio di Ray Anderson/Mark Helias/Gerry Hemingway. Quarant’anni di militanza al massimo livello nella scena dell’avant garde di New York non sono certo passati invano e tutta una storia musicale si sintetizza con grande semplicità nel Bassdrumbone. Infatti i tre musicisti ormai si conoscono come le loro tasche e questo rende l’inter play della formazione quasi ovvio, se non fosse che per raggiungere questo standart sonoro è necessaria grande capacità tecnica ed altrettanta intelligenza creativa. In fondo il trio è un po’ come quelle vecchie coppie che ormai dalla vita non si aspettano più sconvolgenti novità sentimentali, ma che sanno assaporare la convivenza godendosi fino in fondo un sereno presente.
Detta in parole più proprie “La natura fusa delle tre parole è molto più che una scintigrafica sintattica: rappresenta una vera e propria fusione di idee, spesso un mix fuso di lirismo, di eleganza spettacolare e di vocifero invenzione che non mostra solo virtuosità individuale ma un vero e proprio rientro per il cambiamento “. Raul da Gama – JazzdeGama (4 gennaio 2017).
Naturalmente Ray Anderson al trombone sfrutta tutte le possibilità sonore del suo strumento, cosa che da fin dai tempi della sua antica militanza con Anthony Braxton ha caratterizzato il suo performing: la pienezza delle note, spesso rese più growl dall’uso della sordina, si intrecciano con il lirismo delle linee melodiche dei suoi assoli.
La cavata potente di Mark Helias sorregge la struttura del trio, facendo comunque da contrappunto al trombone riempiendo l’aere sonoro. La secca batteria d Gerry Hemingwaycompleta il discorso generale con acccenti ritmici che vanno da reminiscenze alla New Orleans ad un pulsare blues, da coloriture free ad un beat rockeggiante.
Il Torrione Jazz Club di Ferrara ha deciso di dedicarsi in questo BJF alla scena down townnewyorkese: questo primo concerto dei Bassdrumbone ha ben illuminato un modo di vivere e suonare la Grande Mela.