Un fatto di cronaca occorso a Montalto Uffugo in Calabria nel 1865, messo in musica da Ruggero Leoncavallo per il debutto al teatro dal verme a Milano nel 1892 che sembra uscito dalla penna di un cronista dei nostri giorni tanto è simile ai femminicidi che ogni tre giorni in media occorrono nel nostro paese. L’attualità della semplice trama di quest’opera e la ricorrenza, allora come oggi, della parola “follia” ad indicare l’apice del sentimento estremo di gelosia che, trapela dal libretto, dovrebbe attenuare la colpa dell’omicida perché travolto dal dolore per la perdita del proprio onore, è la perfetta rappresentazione di come il patriarcato non sia affatto morto o decaduto per legge nel 1975.

Non esiste più il delitto d’onore, né lo ius corrigendi, esiste oggi formalmente la parità tra i coniugi, ma la scena descritta in Pagliacci è la medesima di tante cronache del nostro presente. Sono cambiati però gli occhi con cui guardiamo quest’opera lirica, così come altre in cui si compiono delitti verso le donne protagoniste della trama. La regista Serena Sinigaglia non ha dovuto fare altro che evidenziare con le luci, sapientemente orchestrate da Claudio de Pace, la drammaticità di quel duplice delitto contro la libertà della donna di scegliere chi amare e di uscire da una relazione tossica, come oggi la potremmo chiamare. Non servivano certo attualizzazioni di scene e costumi, tutto era già perfettamente e atrocemente in linea con l’attualità dei fatti. Eppure Sinigaglia ha posto il tema della violenza e lo ha saputo far bene emergere da donna e da regista proponendo una visione, come lei stessa afferma nell’intervista a Maioli nel programma di sala. La visione registica può essere espressa senza intervenire sulla scrittura, dato che nell’opera il libretto e la partitura sono dati e non possono essere manipolati. Sinigaglia in questo caso non ha dovuto spingere sulla chiave dell’originalità, sul contemporaneo, ma semplicemente ha davvero reso “vivo quel momento di incontro tra il pubblico e ciò che accade sul palco” ispirandosi a quanto gli autori della musica e del testo hanno già fatto per aiutare il pubblico ad arrivare a vivere “una sorta di estasi contemplativa” esaltando e sostenendo quanto i predecessori hanno già fatto.

La regista ha esaltato la solitudine di Nedda, la solitudine che ogni donna vittima prova di fronte alla violenza che la soverchia, una solitudine che Sinigaglia pone come elemento forte della tragedia e “memento per l’umanità”. “Quest’opera- afferma- la dedico a tutte le vittime di femminicidio, a chi viene privato della possibilità di autodeterminarsi, come accade nel caso di Nedda. Questa dinamica, nè pittoresca né folclorica, si erge tra le pieghe dell’opera fino a richiamare gli archetipi della tragedia greca”.

Una regia delicata e per nulla invadente, che mette in risalto ogni filo della trama, ogni elemento di interesse: il teatro nel teatro, i rapporti di classe, la durezza del lavoro contadino e il desiderio di ricreazione e riscatto attraverso la partecipazione civica alla festa e al teatro, la difficoltà del lavoro itinerante dei comici e giullari, la difficoltà del sostenere in pubblico ciascuno la propria parte, la propria maschera e ovviamente quello già enucleato della violenza di genere.

Mariangela Sicilia è perfetta nell’interpretazione di Nedda, una Nedda che è tutta in quella fresca e spensierata esclamazione “Ah che bel sole di mezz’agosto”. La libertà, la gioia, la dolcezza del personaggio, il suo sogno di decidere chi amare ed essere felice sono tutte in quella frase liberatoria che ha il suo contraltare nel dover fronteggiare la violenza di Tonio che cerca di sedurla e che, in questa regia, cerca anche di violentarla, e nello sguardo di terrore all’apparire dell’arma con cui Canio la colpirà. Il personaggio di Nedda ha un continuo altalenare tra la possibilità della felicità e la violenza sia nella vita quotidiana che sulla scena interpretando Colombina. Sicilia riesce perfettamente a rendere con la voce così come con il corpo la leggerezza del momento di abbandono all’amore con Silvio come anche con Arlecchino, così come la fatica del rapporto con il molestatore Tonio e con il marito geloso e violento Canio. Nel cast va segnalata l’interpretazione di Roman Burdenko del famoso e divertente Prologo che ci immette nel fasi del teatro ricordandoci che gli artisti sono fatti “di carne e ossa” come tutto il pubblico e di loro vanno considerati i sentimenti, piuttosto che le “povere gabbane” che vestono in scena. Gregory Kunde veste i panni di Canio e di Pagliaccio, sicuramente convincente nel secondo atto, meno incisivo nella scena iniziale del primo. Il Coro è perfetto sia nella parte canora che nell’interpretazione dei personaggi dei popolani e popolane e i tempi staccati dal direttore Oren permettono un gran dinamismo, un turbinio continuo, un continuo sorprendersi ed entusiasmarsi grazie alla musica. I coristi creano davvero una folla festante e gioiosa. La decisione di battere le mani nel “su su facciamo rumore”, ripreso poi anche nel secondo atto per sollecitare, fattesi ventitrè ore, i comici ad iniziare, aiuta a innescare un crescendo di tensione festante. Il direttore Daniel Oren ha dato vita ad una rappresentazione che si segue con il fiato sospeso, che coinvolge senza mai un calo di ritmo. Tutto scorre con grande passione e coinvolgimento.

Un Pagliacci che non annoia, in cui ci si sorprende in ogni momento come incontrando un vecchio amico ritrovato, perché tutto appare nuovo e brillante nonostante lo si sia sentito tante e tante volte. Plauso anche agli attori e figuranti per il prologo e per la controscena dei contadini che mietono la sera, prima di andare ad assistere allo spettacolo a ventitré ore mentre il tenore canta il “ridi pagliaccio”. L’uso delle falci da parte dei contadini nei campi, oltre che ad evocare un mondo contadino, di duro e faticoso lavoro, rimanda anche a come delle vite saranno presto falciate via per quel dolore d’amore infranto provato dall’attore Canio che gli avvelena il cuore tanto da sentirsi legittimato a cancellare le vite di coloro da cui si sente tradito. Con una semplice controscena la regista forse ci invita a prendere le distanze dal punto di vista dell’addolorato Canio, ricordandoci che non è veramente amore, se uccide. Al contempo Sinigaglia Guarda alla figura di Pagliaccio con sguardo felliniano nel senso che se è vero che tutti recitiamo la nostra parte e quindi siamo un pò tutti dei pagliacci, Canio si rende conto della sua condizione sentendone il dolore più acutamente di quanti restano nell’ignoranza e da quella consapevolezza e non da follia che si origina la terribile violenza perché come dirà molti anni dopo Pirandello “davanti al proprio pupo ognuno vuole portato il suo rispetto”. Il tradimento fa perdere a Canio l’onore e da lì l’adozione del canone patriarcale vigente di vendicare lucidamente, coscientemente, l’onore tradito fino alle estreme conseguenze quando potrà ristabilire l’ordine delle cose secondo la propria prospettiva dichiarando con assoluta calma “la commedia è finita!”

Un godibilissimo spettacolo, con una esecuzione musicale impeccabile e divertente, una regia convincente capace di interrogare l’opera con lo sguardo contemporaneo senza farle violenza. Un cast che riscuote applausi a scena aperta e alla conclusione a non finire. Da vedere nelle ultime repliche fino al 22 dicembre.