Il Kazakistan sta vivendo la più grande protesta diffusa degli ultimi 10 anni: a distanza di poco più di una settimana gli arrestati sono oltre 8.000, i feriti 2.200 e sono stati registrati almeno 164 morti. Le proteste sono scoppiate «per il caro Gpl -ci spiega in un’intervista Eleonora Tafuro Ambrosetti, ricercatrice Ispi– il cui prezzo è raddoppiato per la privatizzazione del gas» dopo che il primo gennaio il governo kazako ha deciso di rimuovere i limiti ai prezzi: i cittadini hanno iniziato a manifestare a Zhanaozhen, tra i maggiori centri petroliferi del paese, ma le proteste si son ben presto estese fino ad Almaty, la capitale economica, e sono poi esplose in tutte le principali città kazake.
Gli eventi in Kazakistan, fra stato d’emergenza e intervento della Russia
Dopo i primi giorni di protesta, mercoledì 5 gennaio il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha dichiarato lo stato d’emergenza fino al 19 gennaio e ha confermato le dimissioni del governo: dallo scoppio delle manifestazioni, tuttavia, la narrazione ufficiale appare incoerente. Tokayev ha infatti assicurato le dimissioni dell’ex presidente Nazarbayev dalla carica di capo del Consiglio di sicurezza, ma nello stesso tempo ha rilanciato parlando di terrorismo finanziato da forze straniere.
Le manifestazioni, tendenzialmente pacifiche all’inizio, si sono accese davanti allo scontro con le forze dell’ordine: il pugno duro del governo ha ben presto rallentato e bloccato le comunicazioni. Whatsapp, Telegram, Facebook, WeChat e collegamenti telefonici, che anche in altre proteste simili, come quelle di Hong Kong, erano stati strumenti per la diffusione di messaggi organizzativi e video, hanno subito delle restrizioni nelle ore più calde delle proteste. A questo si è aggiunto il silenzio stampa della Televisione.
Cittadine e cittadini hanno fatto irruzione nel municipio di Almaty e nella sede locale del Nur Otan, il partito di governo, appiccando in entrambi i casi un incendio; in alcuni centri sono state sfregiate le statue dedicate all’ex presidente Nursultan Ábishuly Nazarbyev. E sono proprio questi eventi a far scendere in campo, dopo la richiesta d’aiuto di Tokayev, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), «l’erede del patto di Varsavia a guida russa». Alcuni alleati, come il Kirghizistan, hanno deciso di non intervenire, mentre la Russia ha mandato tremila paracadutisti già il 6 gennaio.
Per Ambrosetti «questo intervento ha, ovviamente, attirato l’attenzione internazionale per le ripercussioni che può avere sia per la regione, ma anche per le relazioni più in generale tra Russia e Occidente, alla luce dei negoziati sull’Ucraina con gli Stati Uniti, che stanno avvenendo in questi giorni».
Rapporti internazionali, energia, povertà: l’origine della crisi
Quello dell’aumento dei prezzi del Gpl è, ovviamente, il Casus Belli della rivolta, sintomo di un generale e diffuso malcontento che era già presente prima nel paese. Ad originarlo è una particolare congiuntura economica, sociale e politica. «Il Kazakistan -sottolinea la ricercatrice Ispi- è sicuramente la repubblica più importante delle cinque repubbliche centro-asiatiche, non solo perché è la più estesa, ma anche perché è molto ricca di risorse naturali, di petrolio (che tra l’altro fornisce anche a noi, Italia), di uranio, che è un importantissimo tassello per la strategia della nuova via della seta cinese. Ed è anche uno dei paesi più importanti per le criptovalute: infatti è al secondo posto al mondo per estrazione di bitcoin».
In questa prospettiva internazionale, il Gpl aveva iniziato a rappresentare negli anni un’alternativa al petrolio: attraverso una regolamentazione interna del mercato, che rendeva il prezzo vantaggioso, si era avviata una stagione di conversione dei veicoli dei cittadini kazaki, alleggerendone così le tasche. Quando tuttavia la disponibilità interna di Gpl ha iniziato a scendere, perché esportato illegalmente all’estero, dove la vendita era più proficua, il governo ha cercato di rispondere attraverso lo sblocco dei limiti, lo scorso primo gennaio. Nel frattempo, la domanda non era mai stata così alta e, in un contesto economico fragile come quello kazako, un tale colpo economico è stato troppo per cittadini e cittadine.
La Russia nello scacchiere centro-asiatico
Per giustificare il ricorso all’alleanza militare regionale guidata dalla Russia, il presidente del Kazakistan ha parlato di “aggressione terrorista” di ispirazione straniera, argomentazione che tra l’altro è stata utilizzata dallo stesso Putin come giustificazione per il proprio intervento. Secondo Ambrosetti, fra ciò che è successo in Bielorussia lo scorso anno e i recenti eventi del Kazakistan, «fatte salve le differenze, ci sono delle similitudini: in entrambi i casi, infatti, è stato chiesto l’appoggio della Russia, che rimane lo stato più importante nella regione, sia a livello politico che economico, e lo si è ottenuto. In entrambi i casi non si è però avviato un processo reale di dialogo con i cittadini, e quindi si rischia che questi due regimi autoritari, comunque, siano stabili solo in apparenza, perché poi le ragioni delle proteste e del dissenso continuano ad essere forti».
All’interno della Russia, intanto, i media vedono le truppe russe come uno strumento per mantenere una pace multilaterale, nel cui quadro si inseriscono, non a caso, proprio Bielorussia e Armenia: la presenza di queste forze militari vengono dipinte, quindi, come un grande risultato per il governo di Mosca. In questo senso, per Eleonora Ambrosetti, «c’è la possibilità di una guerra civile, ma questo lo vedo molto difficile perché la Russia ha dimostrato di voler mantenere la stabilità a tutti i costi; tra l’altro anche la Cina si è dimostrata soddisfatta con questa sorta di divisione dei compiti: la Russia che mantiene l’ordine e la Cina che mantiene un forte ordine nel paese, soprattutto dal punto di vista economico».
Equilibrio e Stabilità: le ragioni della Cina
Nello scacchiere politico dell’Asia Centrale, oltre alla Russia, in questi ultimi anni si è quindi affacciata la potenza rappresentata dalla Cina. Non è un caso che anche l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che la Cina presiede e di cui fanno parte proprio Russia e Kazakistan, sia intervenuta, affiancando il Csto. È la seconda volta in sei mesi che la Cina vede scoppiare disordini attorno alle sue frontiere, dopo la presa talebana dell’Afghanistan, lo scorso agosto. Ed esattamente come nelle questioni interne, l’obiettivo del Politburo è quello di mantenere equilibrio e stabilità: non è un caso che il ministro degli Esteri cinese, al telefono con il vicepremier kazako Tileuberdi, abbia affermato «alcune forze esterne non vogliono la pace e la tranquillità nella nostra regione».
Un equilibrio che non solo è politico, in quanto si sente forte la minaccia che le proteste si espandano anche in Xinjiang, ma anche economico: il Kazakistan rappresenta infatti uno snodo cruciale per i progetti cinesi, in particolare nella prospettiva della Belt and Road Initiative. Il Kazakistan esporta in Cina petrolio, rame, materie prime, ed il gas importato in Cina rappresenta addirittura il 29% del totale. Inoltre, un’altra importante percentuale del gas importato non proviene direttamente dal Kazakistan ma ci passa, attraverso il gasdotto China Central Asia, operativo dal 2009.
Un Kazakistan instabile non è quindi auspicabile a Xi Jinping, in quanto minaccia direttamente la sua sicurezza energetica: proprio per questo il governo di Pechino sta iniziando trattative con il segretario generale del Consiglio per la cooperazione nel Golfo e i ministri degli Esteri di quattro dei sei Paesi membri (Arabia Saudita, Kuwait, Oman e Bahrain): l’obiettivo è quello di firmare un accordo di libero scambio per petrolio e gas.
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Francesco Manera