Giovane compositore bolognese, ancora alla ricerca d’uno stile completamente personale, ma già con alcuni tratti caratteristici della piena maturità, a cominciare dalla a dir poco stregonesca abilità d’orchestratore e capacità di cavare timbri e sfumature singolari, oltre ad una cinematicità di fondo, pur non avendo egli mai composto alcunchè per la settima arte.

Rappresentante illustre della cosiddetta “generazione dell’80”, assieme al parmense Ildebrando Pizzetti, al torinese Alfredo Casella ed al veneto Gian Francesco Malipiero, il bolognese Ottorino Respighi (1879-1936), fu tra coloro che, in comunione d’intenti fra i suoi compagni d’avventura, sia pur manifestando ciascuno una propria personalità, sprovincializzò il panorama musicale italiano recuperandone il ritardo storico rispetto a quanto accadeva oltralpe, uscendo dall’imperante egida melodrammatica per approdare ad un nuovo idioma nazionale e contribuendo attivamente, dall’altro lato, al recupero dell’antica civiltà strumentale nostrana, all’epoca caduta quasi nell’oblio.

Studi a Berlino non particolarmente proficui con Max Bruch, contrariamente a quelli assai più produttivi, sia pure ufficiosi, a San Pietroburgo con Nikolai Rimski-Korsakov, autore che gli lascerà tracce indelebili, violista e violinista di vaglia, esibitosi sporadicamente anche come direttore d’orchestra, soprattutto riguardo ai propri lavori, la sua forte personalità unita ad un grande talento, gli procacceranno una rapida ascesa internazionale, al punto che non esisteva orchestra o complesso strumentale, che non avesse in repertorio almeno una sua composizione. Al momento della morte risultava essere il compositore italiano più noto in assoluto.

Purtroppo, al giorno d’oggi, il suo nome resta soprattutto legato ad una manciata di composizioni, pur notevoli, riproposte ad nauseam, mentre su tutto il resto, che pur non demerita, salvo sporadiche riesumazioni, è calato il silenzio. Meno male che, perlomeno a livello discografico, la situazione sia decisamente migliore, permettendone così anche ai non addetti ai lavori, una più ampia ed approfondita indagine (tacendo della rete). La “Sinfonia drammatica”, ossia la composizione propostavi, completata nel 1914 ed eseguita in prima assoluta all’Augusteo di Roma il 24 gennaio 1915 sotto la bacchetta di Bernardino Molinari, sembra quasi presagire i venti di guerra che stavano per investire il mondo intero, tant’è che alla prima conobbe soltanto un successo di stima, venendo ripresa sporadicissimamente in seguito e cadendo praticamente nel dimenticatoio (una manciata, a tutt’oggi, le incisioni discografiche), eppure, nonostante qualche acerbità e forse una certa debolezza formale, purtuttavia è una pagina che s’impone all’ascolto e meritoria di più frequenti rivisitazioni.

Di tipico impianto tardoromanticamente grandioso, a cominciare dall’orchestrazione, opera di un giovane musicista ancora alla ricerca d’una piena individualità, reca già in seno alcune caratteristiche della piena maturità, a cominciare dalla padronanza sovrumana nello sfruttare la ricchezza timbrica ed espressiva offerta dalla grande orchestra, dagli slanci enfaticamente spettacolari, che sembrano anticipare le colonne sonore dei decenni a venire. Certo le influenze sono molteplici, a cominciare dalla struttura ciclicamente tripartita di derivazione franckiana, dalla sua ammirazione per il sinfonismo austro-tedesco, a cominciare da Gustav Mahler e Richard Strauss, non dimenticando anche l’Arnold Schoenberg del periodo iniziale, così come risultano evidenti le influenze russe, a cominciare naturalmente da Nikolai Rimski-Korsakov, passando però anche per Alexander Scriabin ed Igor Stravinski, senza sorvolare sulle tracce debussyane. Eppure, anche in questo crogiolo d’influssi, non mancano, a tratti, di far capolino alcune delle caratteristiche che costituiranno il sigillo personale di Respighi negli anni a venire. Il tempo quasi di marcia verso la conclusione del primo movimento sembra praticamente anticipare quello de “I pini della via Appia”, quadro finale del celeberrimo poema sinfonico “I pini di Roma” del 1924; così come nel secondo movimento, quello centrale, risulta evidente l’interesse del compositore verso lo spirito e la musica del passato, anch’esso base evidente di non pochi suoi futuri lavori.

Postludio: ricordo, alcuni decenni fa, d’aver assistito ad un concerto al Teatro Bonci di Cesena, proprio con lo stesso direttore, Sir Edward Downes, e la stessa orchestra, la BBC Philarmonic, interpreti dell’incisione da me scelta per la radiotrasmissione (registrata alla Concert Hall della New Broadcasting House di Manchester, il 17 e 18 novembre 1992). Downes doveva avere il nostro paese nel cuore, poichè in patria era quotato soprattutto come interprete verdiano (esordì con un “Otello” nel ’58 al Covent Garden, finendo col dirigere, lungo la sua carriera, ben 25 delle 27 opere di Giuseppe Verdi), oltre che dedicarsi anche ad un autore come Ottorino Respighi. Mai avrei immaginato la sua fine straziante: accortosi d’essere condannato sia dalla cecità che dalla sordità, con sua moglie ex ballerina e conduttrice d’una rubrica televisiva dedicata alla danza, minata da un cancro al seno in fase terminale, la coppia, in accordo coi figli, si fece accompagnare da questi ultimi, in una clinica della “dolce morte” in Svizzera. Lì, la sera, dettero un ricevimento d’addio per alcuni intimi ed amici, dopodichè, la mattina dopo, si fecero praticare l’iniezione letale. A quel punto, i figli, prima di rientrare in patria, si autodenunciarono telefonicamente, a Scotland Yard.

Gabriele Evangelista