Grano duro e grano tenero, pasta e pane. Sono due delle materie prime e dei prodotti a loro connessi i cui prezzi sono schizzati alle stelle negli ultimi mesi. Colpa della guerra in Ucraina, certo – Kiev e Mosca assieme sono responsabili di un terzo delle esportazioni mondiali di grano – ma anche del combinato disposto di crisi climatica, pandemia, speculazione finanziaria. Un mix intricato di cause che rischia di ricadere sulle tasche dei consumatori occidentali, specie se poco abbienti, e ancor più violentemente sulle popolazioni dei paesi in via di sviluppo.

Aumento prezzi, oltre alla guerra in Ucraina il cambiamento climatico

«L’aumento del costo delle materie prime deriva da diverse crisi sovrapposte: clima, pandemia, crisi energetica e ora anche la guerra» a parlare è Francesco Paniè, researcher e campaigner dell’Ong Terra!. «Innanzitutto dobbiamo distinguere tra le diverse materie, ognuna delle quali è influenzata da fattori ed attori diversi. La scarsità di grano duro è data innanzitutto dal crollo della produzione canadese – parliamo di un meno 60% – causato da una prolungata siccità le cui cause sono da ricercare nel riscaldamento globale. Il mais, invece, ha un’altra storia. Principale ingrediente nelle mangiatoie negli animali allevati, in un paese come il nostro è prodotto solo per la metà internamente, e per il resto importato. Anche in questo caso l’Ucraina c’entra solo parzialmente, ne importiamo da Kiev solo il 13%, mentre molto più centrale è l’aumento della domanda cinese seguita alla fine dell’epidemia da peste suina in quelle zone, che ha portato inevitabilmente ad un rincaro. E infine arriviamo al grano tenero, quello che usiamo per fare il pane, che l’Italia importa per il 65%. Di nuovo, Russia e Ucraina sommate coprono solo il 6% del nostro import, e il boom dei prezzi è da imputare a meccanismi di speculazione finanziaria, allo scambio dei futures relativi al valore del grano e a dinamiche di borsa».

Quindi l’invasione russa non ha alcun effetto? Non esattamente. «Noi siamo dipendenti dall’Ucraina per l’olio di girasole, essenziale in molti processi industriali – anche se, va detto, serve a produrre beni ai quali possiamo rinunciare senza troppe difficoltà» spiega Paniè «e poi molti paesi mediorientali e nordafricani dipendono quasi totalmente dalle esportazioni di grano russo ed ucraino – parliamo di Libano, Egitto, Tunisia – e il rischio è che il rincaro in paesi già poveri e provati dalla pandemia porti a carestie e nuovi scossoni sociali come le primavere arabe dei primi anni ’10».

Arriviamo alle risposte dei governi europei. «I ministri dell’agricoltura dell’Ue si sono incontrati e hanno deciso di rivedere le strategie sulla sostenibilità – Green Deal, Biodiversity Strategy – evitando di ridurre fertilizzanti ed aumentare biologico ed incolto come promesso in passato. La logica è quella di riportare la produzione di mais e altri alimenti per mangimi in casa invece di affidarsi al mercato estero. Ma questa è un’idea fuori dal tempo! Usiamo una guerra per deregolamentare, abolendo politiche già timide e peraltro appena approvate. Ad attizzare queste decisioni c’è l’alleanza del Copa-Cogeca, la lobby europea dell’agroalimentare».

Quali sono le alternative, chiediamo. «Dobbiamo iniziare a cambiare totalmente il sistema agroalimentare, abbandonare gli allevamenti intensivi e riconvertire i terreni agricoli dedicati all’alimentazione animale – tantissimi – a colture per l’alimentazione umana. In un colpo solo elimineremmo i pericoli ambientali, sanitari ed etici legati agli allevamenti intensivi, ci renderemmo indipendenti dal punto di vista alimentare e forniremmo ai nostri cittadini cibo di migliore qualità».

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Lorenzo Tecleme