A Glasgow è in pieno svolgimento Cop26, la conferenza internazionale sul clima che già dai primi passi si manifesta in salita. Uno dei primi ostacoli al raggiungimento di un accordo è la posizione espressa dal premier indiano Narendra Modi, che ha fatto sapere che il suo Paese raggiungerà emissioni zero soltanto nel 2070, cioè vent’anni dopo l’obiettivo del 2050 che tutti si pongono.
In discussione, però, non ci sono soltanto le posizioni dei singoli Paesi, ma anche questioni di merito sull’impatto climatico delle diverse attività umane. Tra queste, una che ha finora goduto di una sorta di esenzione da tutti i programmi di conversione ecologica è quella legata al settore militare. Per questo una campagna internazionale della società civile chiede ai governi un impegno concreto per ridurre le emissioni inquinanti militari.

L’appello a Cop26 per ridurre anche le emissioni inquinanti militari

Sono moltissime le organizzazioni che fanno parte della campagna per chiedere la riduzione delle emissioni inquinanti militari e, tra queste, anche la Rete Italiana Pace e Disarmo. «Ovviamente è un aspetto particolare del problema più grande del cambiamento climatico – osserva ai nostri microfoni il portavoce, Francesco Vignarca – L’accordo di Parigi ha lasciato il taglio delle emissioni militari di gas serra a discrezione dei singoli Paesi. Quello che chiediamo noi è che anche le emissioni inquinanti provenienti dall’ambito militare debbano essere inserite all’interno degli accordi e gestite dai governi con la stessa trasparenza e lo stesso rigore utilizzato per tutte le altre emissioni».

Gli estensori della petizione sul tema (consultabile qui) sottolineano che le forze armate sono grandi consumatori di energia, contribuiscono in maniera significativa alle emissioni inquinanti e causano un impatto negativo con l’addestramento e le altre attività militari.
«La spesa militare globale è aumentata del 2,6% nel 2020 fino a quasi 2.000 miliardi di dollari – sottolinea la Rete Italiana Pace e Disarmo – nonostante un calo del Pil globale del 4,4% a causa della pandemia COVID-19. Tali aumenti della spesa militare rischiano di rispecchiare gli aumenti delle emissioni, oltre a distogliere i finanziamenti dallo sviluppo sostenibile, dalla mitigazione e dall’adattamento al cambiamento climatico».

Nel giugno 2021 la Nato ha mostrato disponibilità a valutare la fattibilità di raggiungere emissioni nette zero entro il 2050. Un aspetto positivo per i sostenitori della campagna, ma l’impegno non può essere generico e, in particolare, vengono richiesti atti concreti e soprattutto trasparenza.
Per questo motivo la campagna dettaglia alcuni punti specifici e concreti, come la necessità di fissare chiari obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra per le strutture militari che siano coerenti con l’obiettivo di 1,5° specificato dall’Accordo di Parigi del 2015, impegnarsi a meccanismi di reporting delle emissioni di gas serra verificati in modo indipendente, contenere chiari obiettivi di riduzione per l’industria tecnologica militare e pubblicare politiche, strategie e piani d’azione per la riduzione dei gas serra, con rapporti annuali di follow-up sulle prestazioni.

Nel frattempo sei agenzie governative statunitensi hanno lanciato un allarme sull’aumento dell’insicurezza proprio a causa dei cambiamenti climatici. «Finalmente ci sono arrivati, noi lo diciamo da tempo», sottolinea Vignarca, secondo cui però gli strumenti adeguati per affrontare il problema non sono quelli militari.
Per i disarmisti la soluzione migliore sarebbe quella di una transizione dall’uso della forza e della violenza a una risoluzione non violenta dei conflitti. «Mentre continuiamo a chiedere ciò – conclude Vignarca – è fondamentale che quantomeno gli eserciti esistenti siano sottoposti a un regime di controllo e di abbassamento dell’inquinamento come tutti gli altri comparti, perché altrimenti gli sforzi che tutti gli altri saranno chiamati a fare saranno inutili».

ASCOLTA L’INTERVISTA A FRANCESCO VIGNARCA: