Domenica 31 ottobre comincerà a Glasgow, in Scozia, Cop26. Il vertice sul clima comincerà in salita, come ammette chiaramente il presidente della conferenza Alok Sharma. In particolare, secondo Sharma raggiungere un accordo globale sul clima sarà più difficile di quanto non sia stato siglare l’intesa di Parigi nel 2015, perché bisognerà convincere quasi 200 paesi ad attuare tagli rigorosi alle emissioni di gas serra, in linea con il mantenimento dell’aumento della temperatura globale entro 1,5°C, in una fase in cui la produzione globale di carbone continua a salire.

Uno dei nodi resta il “diritto” rivendicato da alcune potenze emergenti di poter completare lo sviluppo che i Paesi occidentali hanno già raggiunto e il taglio delle emissioni ed altri interventi in favore del clima vengono percepiti come un ostacolo all’economia.
Ma tra i Paesi dell’Occidente che si dicono impegnati nella lotta al cambiamento climatico, però, non è tutto oro quel che luccica. Lo si evince dal rapporto pubblicato da Friends of the Earth Europe, Corporate Europe Observatory e Food & Water Action Europe, membri della rete Fossil Free Politics, che rivela livelli scioccanti di infiltrazione dell’industria dei combustibili fossili all’interno della Commissione europea, dei governi nazionali e delle istituzioni internazionali.

Alla faccia di Cop26, la lobby fossile si infiltra nelle istituzioni

La ricerca, intitolata “Stop the revolving door: fossil fuel policy influencers“, ha esaminato specificamente i legami e le relazioni tra le aziende di combustibili fossili e i governi in tutta l’Unione Europea, compresa la Commissione europea e il Parlamento europeo, nell’arco di tempo che va dalla Cop21 nel 2015 (Parigi) alla prossima Cop26 a Glasgow.
Si contano 71 casi di “porte girevoli”, di esponenti politici o istituzionali “cooptati” dal mondo dell’industria fossile, con l’italiana Eni a fare la voce grossa con ben 10 casi di porte girevoli.
Inoltre le tre organizzazioni hanno mappato 568 incontri di lobby, tra il 2015 e il 2021, tra Shell, Total, BP, Equinor, ENI, Galp e 5 dei loro gruppi di pressione con funzionari di alto livello della Commissione europea; in media 1,5 incontri di lobbying a settimana; una spesa di 170 milioni di euro per fare lobbying all’interno dell’Ue.

L’industria fossile italiana non si fa mancare nulla e, pur di condizionare la politica, investe risorse ed offre posti dirigenziali ad esponenti politici ed istituzionali. La sola Eni, nei sei anni che vanno dall’accordo di Parigi ad oggi, ha speso 7 milioni di euro per attività di lobby e ha realizzato 48 incontri con la Commissione europea.
«L’attività di lobby – osserva ai nostri microfoni Alessandro Runci di ReCommon, che fa parte della rete di associazioni europee che hanno realizzato la ricerca – ha quasi sempre l’obiettivo di ostacolare o neutralizzare eventuali rischi per le società, cioè le politiche per il clima».

I casi di “porte girevoli”, inoltre, sono 10, tra cui i più eclatanti riguardano Luca Giansanti, che dal Ministero per gli Affari Esteri è diventato vice-presidente e responsabile per gli Affari Europei di Eni, Pasquale Salzano, diplomatico italiano distaccato presso Eni che poi è tornato alla Farnesina come ambasciatore italiano in Qatar, Lapo Pistelli, già vice-ministro degli Esteri che poi è diventato direttore degli Affari Pubblici dell’azienda petrolifera, e Alfredo Tombolini, manager di Eni distaccato presso il Ministero degli Affari Esteri.
Se si parla di Affari Esteri il pensiero non può che andare all’Egitto, Paese con cui Eni fa affari ingenti, dal momento che lì si trovano alcuni dei suoi giacimenti più grandi. «Ma è anche un Paese che viola regolarmente i diritti umani – sottolinea l’attivista di ReCommon – e ad oggi ostacola ancora il percorso per avere verità e giustizia per la morte di Giulio Regeni».

Le cosiddette porte girevoli tra industrie fossili e istituzioni, dunque, è possibile dare una chiave di lettura alle difficoltà che i vertici per il clima continuano ad incontrare ed è possibile anche smascherare le reali intenzioni dei governi nel fare o meno sul serio nella lotta ai cambiamenti climatici.
«Attraverso queste porte girevoli si crea una sorta di legame strettissimo tra l’industria fossile e chi quell’industria dovrebbe regolarla – sottolinea Runci – Se esiste questa compenetrazione, il rischio è che i governi possano rallentare l’azione climatica che è sempre più necessaria». E aggiunge che fin quando non verranno istituiti dei veri e propri “firewall” che separano l’attività politica pubblica dagli interessi di queste società, sarà difficile implementare politiche che realmente aggrediscano il problema dei cambiamenti climatici.

ASCOLTA L’INTERVISTA AD ALESSANDRO RUNCI: