“Odioso trasformare il referendum in una disputa tra laici e cattolici”. Gaetano Passarelli, cittadino bolognese, scrive ad Articolo 33 per spiegare perché da cattolico voterà “A” al referendum di domenica prossima. LEGGI IL TESTO DELLA LETTERA.

Gaetano Passarelli scrive al Comitato Articolo 33

Guelfi contro ghibellini, credenti contro anticlericali, cattolici contro laici. È questa la banalizzazione che qualcuno ha voluto creare attorno al referendum del 26 maggio sui finanziamenti alle materne private.
Una banalizzazione che distorce il senso della consultazione e che rischia di spaccare la città.
Gaetano Passarelli, bolognese e cattolico, non accetta questa dicotomia ed ha preso carta e penna per scrivere una lunga lettera, nella quale spiega perché, da cattolico, voterà l’opzione “A” al referendum, quella che chiede di investire i finanziamenti alle materne private nella scuola pubblica.

ECCO IL TESTO DELLA LETTERA:

Queste pagine mi pesano. Ho sempre creduto e sostenuto che la fede di una persona sia un fatto personale, non privato, ma personale. Chi ha fede, chi crede in Dio, fatto Uomo, morto in croce, risorto, per la salvezza dell’umanità, vive ed agisce di conseguenza.

Chiunque viva ed agisca in coerenza con la sua fede, mostra, in pubblico, tutto se stesso. Ecco perché la fede non è un fatto privato, pur essendo molto personale.
La fede non si ostenta (“Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli ”), si mette in pratica (“non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”), tutti i giorni, agendo in maniera coerente (“Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”) in tutti gli ambiti: famigliari, lavorativi, civili, politici, religiosi, conviviali, sportivi… (“Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”)
Certo, con tutti i limiti dovuti alla natura umana.
Non ho mai avuto particolari simpatie per coloro che ostentano il loro status di credente, o di non credente. Come se il solo fatto di essere credente, o ateo, o possedere un qualunque pensiero diversamente credente, o non credente, possa essere questione dirimente per stabilire le qualità morali, etiche e di civismo presenti in una persona.
Ecco perché oggi faccio così tanta fatica a scrivere queste righe.
Allo stesso tempo, però, mi sembra doveroso.

A Bologna, un manipolo di cittadine e cittadini (me compreso), che si è via via allargato, ha proposto un referendum consultivo comunale. Grande esempio di democrazia partecipata. Tema: la Scuola.
Con il passare dei giorni, e degli interventi, il referendum sul tema Scuola si è trasformato in tante altre cose. La più odiosa: una disputa “laici contro cattolici” (che rischia di “spaccare la città”).
Come se i due termini fossero mutuamente inconciliabili (e fin qui, sarebbe sufficiente un normale dizionario della lingua italiana, a smontare l’assunto), ma soprattutto come se tutti i cattolici, in quanto tali, dovessero avere anche tutti la stessa idea preconfezionata (da chi?) su tutti i temi e, nel caso specifico, sulla Scuola.
E le altre persone laiche, ma credenti, che professano altre religioni? E i laici non credenti?
La laicità di uno Stato, come il nostro, è concetto ampio, che comprende e garantisce tutti, credenti e non credenti e non va contrapposto all’appartenenza a questa o quella corrente di pensiero.

Le radici del nostro laico Stato democratico, affondano sulle colline e sui monti che sono stati irrigati con il sangue di giovani (e meno giovani) che certo non condividevano la stessa fede, ma che lottarono fianco a fianco per la conquista di grandi ideali: libertà e democrazia su tutti.
Fu il loro sacrificio che permise ad un altro manipolo di donne e uomini, di inventare la Costituzione Italiana, scritta da credenti e non credenti, ancora una volta assieme, che seppero confrontarsi anche aspramente, ma che alla fine ci fecero dono di un testo nel quale potessero riconoscersi tutti. Che garantisse tutti!
Perché allora il referendum bolognese lo si dovrebbe ridurre ad una questine di fede religiosa?
Perché, in particolare, votare A dovrebbe rendere incoerente il mio professarmi cattolico?
Perché, anche da cattolico, non dovrei avere a cuore le sorti del mio prossimo, a cui gli viene detto che “non c’è posto nella locanda”?
Perché, da cattolico, non dovrei ricordarmi dell’insegnamento che invita a “dare a Cesare quel che è di Cesare”, anche nel caso del referendum bolognese? Non è forse questa una tipica “questione cesarea”?
Perché dovrei accettare di buon grado, da cattolico, che una decisione contabile (a chi volete che vada il milione di euro) debba essere presa sulla base del tempio in cui prego?
È forse lecito permettere ai mercanti di rientrare nel tempio dal quale furono cacciati?

Si dirà: ma perché con la A ci rimetteranno tutte le scuole di ispirazione Cattolica.
E perché mai?! E in quali termini ciò sarebbe vero? A cosa deve guardare un cattolico, alla contabilità fatta con le monete su cui c’è l’effige del Cesare di turno, oppure alla Persona, unica ed irripetibile, fatta ad immagine e somiglianza del suo Creatore?
La scuola dei preti e delle suore (anche se c’è chi usa la locuzione con un insopportabile accento dispregiativo), ha svolto un ruolo storico innegabile, spesso offrendo l’unica possibilità di riscatto da una condizione sociale di miseria, ingiustizie e privazioni (pur senza dimenticare, da cattolico, che, come in tutte le opere umane, in alcuni casi è stato prodotto anche qualche danno grave), garantendo la possibilità di avere un’istruzione anche agli ultimi fra gli ultimi.

Spesso era (e in alcune parti del mondo è ancora così) la sola scuola cattolica, a farsi carico di quelle emergenze a cui lo Stato manco ci provava, a farvi fronte. Banalmente, perché non c’era nemmeno, lo Stato. Comunque restavano fuori in tanti, nonostante l’opera meritoria delle scuole cattoliche. Da quelle condizioni però, poco alla volta, siamo riusciti a venirne fuori ed oggi la scuola è un diritto riconosciuto a tutte le bambine e a tutti i bambini (certo, sulla carta, la Carta più preziosa che abbiamo, ma sempre sulla carta restano, quei diritti).
Perché allora, da cattolico, dovrei accettare come ineluttabile, il fatto che si debba far di nuovo ricorso a scuole cattoliche per garantire un posto a scuola?
Perché, da cattolico, non dovrei essere preoccupato, del fatto che nelle scuole di preti e suore ci si vada (di nuovo) solo perché non c’è alternativa?
Come si può pensare che un cattolico non veda, in tutto questo, un ulteriore effetto del declino, progressivo, verso cui decenni di mala politica hanno indirizzato la scuola pubblica? In tanti Paesi la scuola pubblica è già sinonimo di scuola degli ultimi, di chi proprio non può permettersi null’altro, di chi è predestinato a restare ultimo tra gli ultimi. In queste condizioni prosperano le diseguaglianze, chi nasce figlio di poveri resterà povero, chi nasce figlio di ricchi resterà ricco.

Nel nostro Paese, invece, la scuola è stata pensata, prima, e voluta, poi, per dare a tutte e tutti le stesse opportunità, a prescindere dal reddito (anzi, prevedendo aiuti ai capaci e meritevoli privi di mezzi), dalle personali scelte di fede, dalle condizioni sociali…
Era un’idea semplice e chiara di democrazia: “A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità (applausi). Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.” [discorso di Calamandrei, 1950]

Invece, ancora oggi, non solo quei principi non vengono attuati, ma si mettono addirittura in discussione. Invece di realizzare appieno quel disegno, si continuano a proporre compromessi, giri di parole, politiche del male minore, del meno peggio.
Ma per quale ragione di fede, un cattolico dovrebbe assecondare la pratica antidemocratica del meno peggio? Perché -sia chiaro- una Repubblica (sia essa rappresentata dallo Stato o dal Comune, poco importa) che si accanisce contro la sua stessa scuola pubblica, è una Repubblica antidemocratica, perché si accanisce contro quello che Calamandrei (uno che contribuì a scriverla, la Carta Costituzionale) definì essere l’organo costituzionale che ha la funzione di creare il sangue della democrazia.
Inoltre, ad assecondare il meno peggio, si peggiora solamente. E poi?
A chi spetterà, poi, farsi (nuovamente) carico degli ultimi fra gli ultimi?
Davvero questo, dovrebbe essere motivo di soddisfazione, per un cattolico?
Era questo l’orizzonte di senso che ispirò i (tanti) cattolici costituenti, quando scrissero gli articoli relativi alla scuola?

Quella scuola fortemente voluta nella Costituzione, che nacque anche grazie al contributo di cattolici come Giuseppe Dossetti, il quale si batté affinché si affermasse il diritto all’esistenza delle scuole cattoliche, e fosse garantita la parità giuridica ai suoi alunni: “noi ci siamo preoccupati fondamentalmente di una cosa e di una cosa soltanto: cioè, di assicurare che quella libertà di insegnamento e quella libertà di scuola, che tutti i settori dell’Assemblea hanno dichiarato di volere riconosciute, venissero garantite dalla Costituzione come libertà non soltanto nominali e apparenti, ma sostanziali e concrete”, ma avendo sempre ben chiara la distinzione tra principi giuridici e aiuti economici (che non chiese mai), tanto da ribadirlo con forza, a chi insinuava altri possibili fini: “non abbiamo mai inteso con questo risolvere il problema di eventuali aiuti economici da parte dello Stato alla scuola non statale, ma garantire in modo concreto ed effettivo la libertà di questa scuola e la parità dei suoi alunni rispetto a quelli della scuola statale.”
Perché allora si dovrebbe connotare il quesito referendario bolognese di un peso da scaricare soprattutto sulle spalle dei cattolici? Forse che non valga, ancora oggi, il monito presente in Lc 11, 46?

È di ieri poi la notizia dell’adesione all’appello per la A, del “Centro Formazione e Ricerca Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana”, associazione di volontariato composta da numerosi allievi della scuola di Barbiana la quale “esprime piena solidarietà al Comitato promotore del referendum di Bologna del 26 maggio, aderisce all’iniziativa ed esprime senza indecisioni la seguente indicazione di voto: A in favore delle scuole comunali e statali.”
Don Lorenzo Milani, un altro cattolico, prete, fu l’ideatore della scuola di Barbiana (scuola di prete, privata, che raccattò tutti, senza ricevere soldi pubblici), comunità educante che ha fatto scuola nel mondo. Riferimento didattico, educativo e pedagogico, per intere generazioni di docenti. Scuola guidata da un prete convinto che “non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”, un prete che sosteneva che “bisogna essere di parte”.
Allora sì, caro don Lorenzo, hai proprio ragione tu: oggi più di ieri, bisogna essere di parte. Dalla parte della scuola della Repubblica, laica, inclusiva, gratuita, aperta a tutti.
Ecco perché anche tanti cattolici voteranno A, al referendum sui finanziamenti comunali alle scuole paritarie a gestione privata di Bologna. È una scelta di parte!

Gaetano Passarelli (cittadino, cattolico, di parte A)