“Bisogna riesumare le parole lotta e utopia” (Daniele Mencarelli)

Nella “meravigliosa” società dei vincenti, cui siamo immersi ormai da qualche decennio, la sofferenza interiore è un tabù, uno scandalo, qualcosa di cui vergognarsi, proprio come la morte. Eppure, dietro questa ininterrotta propaganda di felicità al consumo e sorrisi a trentadue denti e al netto di qualche influencer che s’ingegna perfino a monetizzarlo, il dolore psichico dilaga come non mai tutt’intorno a noi.  E forse la sfida del futuro è proprio questa: ricucire l’essenza umana con la sua natura, natura che contempla inevitabilmente la convivenza tra piacere e supplizio, gioia e dolore.

L’incapacità (e assenza di volontà) della politica di dare risposte strutturali a livello economico e sociale sta delegando alla psichiatria l’unica risposta possibile al disagio del nostro tempo, rendendo sempre più sfumato il confine di questa disciplina tra strumento di cura e strumento di controllo sociale.  I tagli alla Sanità Pubblica fanno il resto, lasciando spesso in coda, come la più irrilevante tra le malattie, anche perché la meno riconoscibile, quella mentale.

Gli SPDC (Servizi di Diagnosi Psichiatrica e Cura) sono i luoghi deputati all’accoglienza delle forme più acute di disagio psichico. In uno di essi è ambientato il romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli, da cui è stata tratta una fortunata serie televisiva, “Tutto chiede Salvezza”. Con lui e con Catia Nicoli, psichiatra, Responsabile del SPDC di San Giovanni in Persiceto e Costanza Scura, psichiatra nella medesima struttura, abbiamo provato a dialogare intorno ai tormenti e alle speranze umane, tentando di dare una risposta alla domanda delle domande: se c’è tanto dolore, perché vale la pena vivere?

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