Superato lo sbigottimento dovuto allo scivolamento verso il razzismo di “persone insospettabili”, dovremmo iniziare ad analizzare una a una le dinamiche che vogliamo contrastare. Tra queste c’è un problema di occasioni di scambio e relazione con la diversità che, con il battage razzista di politica e media, si trasforma in paura ed avversione.
Il Razzismo in Italia non conosce più confini
Tutti e tutte noi, cioè coloro che assistono con disperazione alla crescita dell’imbarbarimento razzista nel nostro Paese, dovremo iniziare a razionalizzare e a farci prendere un po’ meno dallo sconforto e dal senso di catastrofica sconfitta. L’indubbia involuzione verso la discriminazione, l’odio, l’autentico e immotivato rancore verso i migranti non è irreversibile e prima lo capiamo, prima riusciremo ad uscire dalla paralisi in cui siamo precipitati e cominciare a lavorare per invertire la rotta.
Il lavoro, bisogna dirlo, non è breve ed è anche abbastanza complicato perché riguarda una molteplicità di dinamiche: psicologica, sociale, politica e mediatica.
Ad esempio a me è capitato molte volte, così come immagino sia capitato a tante e tanti altri, di incappare in discorsi razzisti di persone “insospettabili”. Se questa non è purtroppo una notizia, ciò che invece merita attenzione è la risposta che si riceve quando, obiettando ad affermazioni discriminatorie, si induce l’interlocutore a fare dei distinguo.
Nello specifico, ribattendo ad una delle tipiche frasi contro gli immigrati, si può far presente a chi l’ha pronunciata che anche Mohamed, Jasmine, Mustapha o il nome di qualunque altro conoscente ed amico comune appartiene alla categoria.
Ci sono buone probabilità che, di fronte a questa obiezione, l’interlocutore risponda qualcosa come “Ma che c’entra? Lui/lei lo/a conosco, è una brava persona”.
In questa semplice frase (a dire il vero un po’ patetica perché dà il polso di quanta poca riflessione si faccia sul proprio linguaggio) sta una delle possibili chiavi interpretative di quello che sta accadendo e, di conseguenza, una delle possibili risposte per fermare la deriva.
Molte delle persone che utilizzano un linguaggio razzista, contribuendo a diffondere l’imbarbarimento, in realtà hanno un atteggiamento diverso verso i migranti che hanno conosciuto, con cui sono entrati in contatto e in una qualche misura in relazione. Ciò perché con il contatto e la conoscenza c’è la concreta possibilità di far venire meno stereotipi e luoghi comuni che contraddistinguono la narrazione imperante.
Come dimostra la frase citata in precedenza, ciò non è di per sè sufficiente a smontare tutto il castello retorico e propagandistico, ma di sicuro quella fortezza di odio ha subìto una crepa significativa proprio nel momento in cui si è entrati in contatto con la diversità di cui, secondo la narrazione mainstream, bisognerebbe aver paura.
La naturale deduzione che emerge da questa dinamica è che molte delle persone che oggi si mostrano intolleranti e razziste in realtà abbiano pochi o nessuno scambio o incontro con migranti.
Non si tratta solo di una sensazione. Nel marzo 2018 l’Eurostat ha pubblicato un’analisi sull’incidenza dei migranti rispetto al totale del popolazione dei vari stati Ue e dai dati emerge che paradossalmente il razzismo è più forte nei Paesi dove la presenza migrante è più bassa.
Non potendo “toccare con mano” il fatto che i migranti sono persone esattamente come noi, con gli stessi problemi, le stesse aspirazioni e gli stessi bisogni, è più facile che i cittadini rimangano vittime essi stessi delle narrazioni tossiche e smaccatamente razziste che la politica attraverso i media e spesso i media stessi fanno.
Quando, al contrario, si hanno occasioni di incontro, di scambio anche critico, con stranieri e altre forme di diversità, ecco che molto spesso le opinioni cambiano, gli atteggiamenti mutano e l’empatia trova uno spazio prima oscurato dalla propaganda. Fino alla schizofrenia del “odio gli immigrati, tranne quelli che conosco”.
Di fronte a questa constatazione, il nostro compito potrebbe quindi essere quello di favorire le occasioni di scambio ed incontro tra gli “autoctoni” e i migranti. Occasioni che, però, devono essere di qualità, approfondite, non occasionali e in contesti impropri. Se l’occasione di incontro tra un italiano e un africano è solo al supermercato davanti al quale il secondo fa la questua, la narrazione tossica con molta probabilità non verrà corretta.
Allo stesso tempo, dobbiamo continuare a obiettare e sottolineare l’incongruenza di ragionamento dei nostri conoscenti che si avventurano in discorsi razzisti. Far loro presente che conoscono migranti e vi si relazionano. Che hanno rapporti positivi e, qualora abbiano avuto anche esperienze negative, queste rientrano nella casistica che riguarda le relazioni umani in generale.
Allargando il discorso, è facile interpretare in una chiave del genere i modelli di accoglienza che vengono proposti e attuati. La legge Salvini segnerà il ritorno dei grossi centri, con alte concentrazioni di migranti in aree marginali della periferia, e taglierà i servizi che servono per l’inserimento sociale di queste persone. Questo avrà un impatto sulla percezione completamente diverso da quello dell’accoglienza diffusa, fatta di piccoli appartamenti inseriti nel contesto urbano, dove possono essere favorite le relazioni tra residenti e ospiti delle strutture di accoglienza.
È nostro compito anche segnalare questo aspetto e cercare in ogni modo di infilare i bastoni fra le ruote alla profezia che si autoavvera pensata dal ministro degli Interni.