Dopo la riunione dei ministri degli Esteri europei in cui l’Italia non ha trovato sponda alla sua politica degli “sbarchi selettivi” dei naufraghi, Matteo Piantedosi, ministro degli Interni del governo Meloni, starebbe lavorando a nuove limitazioni alle navi delle ong che effettuano ricerca e soccorso in mare, in quella che a tutti gli effetti è una nuova campagna di criminalizzazione della solidarietà.
Ma i diritti umani delle persone migranti non vengono violati solamente in mare. L’inchiesta vincitrice del Premio Morrione, intitolata “Sulla loro pelle“, offre uno spaccato su ciò che avviene nei Cpr, i Centri di Permanenza per il Rimpatrio.

La detenzione amministrativa nei Cpr, dove i diritti umani vengono calpestati

I “nonni” dei Cpr erano i Cpt (Centri di Permanenza Temporanea), istituiti nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano che per prima in Italia sdoganava la cosiddetta “detenzione amministrativa”. I “genitori”, invece, erano i Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione): un cambio di nomenclatura durante uno dei governi Berlusconi che non ha cambiato la sostanza. Tanto nei Cpt che nei Cie e nei Cpr finiscono persone straniere non in regola con il permesso di soggiorno. Nessun reato penale, quindi, ma le condizioni detentive raccontate dall’inchiesta “Sulla loro pelle”, realizzata da Marika Ikonomu, Alessandro Leone e Simone Manda, sono addirittura peggio di quelle carcerarie.

«Ciò che abbiamo voluto indagare – osserva ai nostri microfoni Ikonomu – è chi gestisce questi luoghi, come vengono gestiti, come il pubblico affidi ai privati la gestione dei centri e soprattutto le condizioni in cui versano le persone trattenute in centri che in realtà sono carceri. Abbiamo intervistato persone che sono passate sia dal carcere che dai Cpr e dicono che il Cpr è molto peggio».
Uno dei problemi specifici viene generato dalla logica del massimo ribasso negli appalti pubblici per la gestione dei Cpr. I privati, il cui scopo è quello di fare profitto, riducono all’osso i servizi e ciò si riverbera nelle condizioni di vita all’interno dei centri.

Nell’inchiesta trovano spazio casi che hanno riguardato diversi Cpr in Italia, come la somministrazione di cibo scaduto, l’assenza di mediazione culturale, l’assistenza sanitaria non garantita.
Anche se l’istituzione dei Cpr è stata accompagnata da una riduzione dei tempi di detenzione, scesi a 90 giorni, le persone si trovano in un limbo, spesso senza nemmeno capire perché e vivono in condizioni lesive dei loro diritti. «Spesso per farsi sentire, perché non vengono ascoltate, le persone ricorrono ad atti di autolesionismo – riporta la giornalista – E sono 9 le persone che in tre anni hanno perso la vita o perché si sono suicidate o perché sono morte in circostanze ancora non chiarite».

Tutta la gestione di questi centri sembra contraddistinta da una grande opacità. Gli stessi giornalisti che hanno realizzato l’inchiesta hanno atteso mesi prima di ricevere risposte alle domande di accesso alle strutture e non sono mai riusciti ad ottenere l’autorizzazione ad effettuare riprese, che sono state fatte grazie a telecamere nascoste.
«Secondo noi è un obiettivo specifico quello di creare opacità attorno a questi centri – sottolinea Ikonomu – cioè di non far sapere nemmeno che esistono nelle nostre città». Del resto, le autorità hanno dovuto fare i conti con le battaglie per la chiusura dei Cie e nella nostra città, Bologna, la trasformazione del Cie di via Mattei in Cpr è stata impedita dalla mobilitazione popolare.

«La detenzione amministrativa non è conseguente a un reato penale – ricorda la giornalista – Potenzialmente tutti i migranti presenti in Italia potrebbero finire nei Cpr e molti, tra l’altro, non verranno nemmeno rimpatriati perché non ci sono gli accordi con i Paesi d’origine».
Per gli autori dell’inchiesta, dunque, i fondi che vengono stanziati per la gestione di centri al cui interno vengono costantemente violati i diritti umani potrebbero essere investiti altrove, ad esempio nell’accoglienza.

ASCOLTA L’INTERVISTA A MARIKA IKONOMU: