È di natura cromatica la prima impressione che coglie se ci si inoltra nei centri storici più coinvolti nel terremoto dell’Emilia del 2012. I colori vividi, quasi fluorescenti, degli intonaci dei palazzi ricostruiti spiccano e contrastano col grigiore degli edifici ancora puntellati, accerchiati dai ponteggi dei cantieri che dopo dieci anni dalle due principali scosse, quella del 20 e poi la seconda del 29 maggio, attendono ancora di trovare nuova vita.
E ancor di più colpisce che le strutture non ancora ricostruite siano in realtà le più maestose, come municipi, teatri o chiese, che hanno atteso a lungo per una precisa scelta di chi allora si trovò a gestire l’emergenza prima e la ripartenza di un territorio vasto poi.
Il terremoto dell’Emilia dieci anni dopo: a che punto è la ricostruzione?
A dieci anni dal terremoto dell’Emilia, insieme alla giornalista e attivista di Libera Sofia Nardacchione, siamo tornati nel cratere, in particolare nei Comuni di Crevalcore, Finale Emilia, San Felice sul Panaro e Mirandola, che ebbero i danni più rilevanti e pagarono il prezzo più alto anche in termini di vite umani, sopratutto di lavoratori.
28 morti, 300 feriti, 45mila sfollati e un bilancio dei danni che superava i 13 miliardi di euro. Sono questi i numeri di quel sisma che, a dispetto del nome, sconvolse i territori di tre regioni: l’Emilia, appunto, insieme a Lombardia e Veneto. Ma è nella bassa modenese che registrò l’epicentro delle scosse di magnitudo 5.9 ed è per questo che, per raccontare la ricostruzione ad una decade di distanza, quei luoghi sono una cartina di tornasole.
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Ad accompagnarci nel reportage, che vi presentiamo sia come gallery fotografiche che come podacast, intitolato “Non è finita – La ricostruzione del terremoto dell’Emilia dieci anni dopo”, sono tre persone che non hanno mai abbandonato quei luoghi. Anzi, in alcuni casi ci sono tornati, come la giornalista di “Sul Panaro” Antonella Cardone, che dopo le scosse decise di lasciare il centro di Bologna per trasferirsi dove aveva parenti e il compagno. Allo stesso modo Francesco Dondi, penna della “Gazzetta di Modena”, ha ricoperto il duplice ruolo di terremotato e giornalista che ha raccontato il terremoto, l’emergenza e le fasi successive.
Anche l’assessora del Comune di Crevalcore Emma Monfredini, che all’epoca del terremoto era adolescente, è rimasta con la propria comunità.
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Dopo le settimane concitate seguite alle scosse, quando la priorità era trovare una sistemazione a chi aveva perso la casa ed ogni cosa, l’Emilia ha concentrato gli sforzi per la ricostruzione. L’allora commissario, l’ex presidente della Regione Emilia-Romagna Vasco Errani, e i sindaci del Comuni colpiti individuarono una scala di priorità per la ricostruzione, alla cui cima si trovavano i servizi essenziali, come scuole e ospedali, seguiti dalle case delle persone e dalle aziende, in un territorio che grazie al biomedicale rappresentava il 2,4% del pil nazionale.
A restare indietro, allora come oggi, sono stati gli altri edifici pubblici, come i municipi o i luoghi di socialità e di culto. Teatri, centri sportivi, chiese: sono queste che, a dieci anni dal terremoto, mancano all’appello nella ricostruzione.
Secondo i dati della Regione Emilia-Romagna, la ricostruzione è completata al 95%. Un dato che spinse già qualche anno fa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che proprio oggi torna nei luoghi colpiti nel 2012, a definire esemplare il lavoro fatto in Emilia.
Tuttavia i nodi aperti non sono pochi, così come complesso e ricco di ostacoli è stato il percorso che ha portato fino ad oggi. Ed è proprio su questi temi che si concentra il podcast, nel tentativo di spiegare quanto è difficoltoso e quali e quante variabili esistono nella ripartenza dopo una catastrofe come quella rappresentata dal terremoto.
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Dopo l’emergenza e il problema degli sfollati, sono numerose le questioni che si sono dovute affrontare. A partire dal destino di piccoli Comuni, spesso sguarniti di personale adeguato per gestire una mole enorme di lavoro di ricostruzione, che rischiavano di essere abbandonati o di trasformarsi in paesi-dormitorio, come sovente avviene in provincia, anche senza calamità naturali.
Tra le questioni non ancora completamente risolte, ad esempio, c’è quella del piccolo commercio, settore dirimente per la vivacità di un luogo, che oltre alle fatiche generate dal sisma ha dovuto poi affrontare quelle della pandemia.
Ma anche le problematiche connesse ai cantieri, alla loro complessità, ai ritardi e agli inghippi che hanno incontrato, non sono trascurabili.
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Il macigno più grosso, però, è forse quello giudiziario, con diverse indagini aperte e talvolta sfociate in processi, di cui quella più consistente è stata Aemilia sulle infiltrazioni della criminalità organizzata. Un territorio indebolito dal terremoto ha suscitato gli appetiti delle mafie, che proprio nella ricostruzione hanno tentato di banchettare. In previsione di ciò che sarebbe potuto succedere, le autorità avevano introdotto il sistema delle “white list”, una certificazione antimafia per le imprese che avrebbero potuto operare nei cantieri dopo post-sisma.
Il sistema, almeno a quanto ci è dato conoscere fino ad oggi, sembra aver funzionato e l’infiltrazione, che pure si è verificata, sembra essere stata bloccata.
Quello che però è emerso visitando quei luoghi e parlando con le persone che se ne occupano e lo vivono diverge un po’ dalle narrazioni ufficiali, quelle della politica, tese ad enfatizzare i risultati e a minimizzare le difficoltà. In particolare, ciò che hanno detto tutti coloro che ci hanno accompagnati nei luoghi di quello che fu il terremoto dell’Emilia è che, dieci anni dopo, la ricostruzione non è ancora finita e che c’è un parte importante, perché riguarda la vita della comunità, che deve ancora essere ultimata.
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