L’Italia elabora la manovra correttiva richiesta dall’Europa, che probabilmente sarà intorno ai 7 miliardi e conterrà l’aumento dell’iva e delle accise. Un buco in più nella cinghia degli italiani, i cui salari (dati Istat) crescono 5 volte in meno dell’inflazione. Intanto l’Europa non sembra disponibile a concedere flessibilità all’Italia. L’analisi dell’economista Giacomo Bracci.

“Aprile dolce dormire” dice il proverbio, ma l’Italia invece dovrà svegliarsi perché in questo mese scade l’ultimatum dato dall’Europa per la manovra correttiva dei conti pubblici.
Se la richiesta iniziale di aggiustamento si aggirava sui 3,5 miliardi, la manovra che il governo sta predisponendo potrebbe raggiungere una cifra doppia, 7 miliardi, ricavati da un probabile aumento dell’iva e delle accise.

Giusto una settimana fa, l’economista Giacomo Bracci aveva spiegato ai nostri microfoni gli effetti nefasti di un possibile aumento dell’iva. Conseguenze che si aggravano considerando un altro dato, diffuso nei giorni scorsi dall’Istat: i salari fermi.
Le retribuzioni contrattuali orarie a febbraio segnano un nuovo minimo storico, salendo di appena lo 0,3% su base annua: l’incremento più basso da quando esistono le serie storiche, ovvero dal 1982. Intanto i prezzi a febbraio sono saliti dell’1,6%: una velocità cinque volte superiore a quella delle retribuzioni.

“Questo conferma che ad aumentare è l’inflazione generale, trainata dai prodotti energetici – osserva Bracci – mentre l’inflazione core, quella positiva e legata all’aumento dei salari, rimane ferma allo 0,7%”.
Un aumento dell’iva e delle accise, tasse che colpiscono tutti indipendentemente dal reddito, dunque, ridurrebbe ulteriormente il potere di acquisto delle persone, con conseguenze a catena sui consumi, quindi sulla crescita.

Nel frattempo, la Commissione europea si mostra inflessibile in tutti i sensi con l’Italia. In un’intervista pubblicata su Il Mattino, il direttore generale agli Affari Economici dell’Ue, Marco Buti, ha fatto sapere che non verrà concessa maggiore flessibilità all’Italia per quanto riguarda deficit e debito.
“In realtà la flessibilità concessa all’Italia è davvero esigua – osserva Bracci – Parliamo di un 0,75% del pil per gli investimenti e di uno 0,10% per migranti e sicurezza. In totale meno di un punto di pil”.

L’economista osserva che questi dati vanno letti insieme ad un altro elemento, quello della disoccupazione strutturale: la stima di un tasso ottimale e insuperabile, che per l’Italia si aggira intorno all’11%.
“Se la disoccupazione reale non si allontana molto da questo valore – spiega Bracci – lo spazio concesso all’Italia per alleggerire le manovre di rientro dal deficit o spendere di più è ridotto”.
A livello europeo, dunque, la ricetta dell’austerity rimane in vigore nonostante i fallimenti.