Il 24 e 25 giugno si terrà un nuovo vertice Nato, un appuntamento chiave per ridefinire gli impegni militari e industriali dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica. L’Italia, attraverso le parole del governo guidato da Giorgia Meloni, ha già chiarito la sua posizione: piena continuità con i governi precedenti e volontà di raddoppiare la spesa militare. Per il riarmo, al centro anche dei piani europei, il nostro Paese si impegnerebbe a raggiungere una spesa pari al 2% del pil in difesa, ma gli appetiti bellicisti ora hanno alzato la soglia al 5%.

Lo sciopero generale contro il riarmo alla vigilia del vertice Nato

Alla base della corsa al riarmo c’è la trasformazione dell’apparato produttivo in un sistema sempre più integrato con le esigenze strategiche della Nato. Un processo che – secondo i sindacati di base – rischia di diventare strutturale, e che prevede investimenti pubblici massicci a favore dell’industria bellica, sotto la retorica della “autonomia strategica”.
Contro questa direzione, l’Unione Sindacale di Base (USB) ha indetto uno sciopero generale di tutte le categorie per il 20 giugno. Una giornata di astensione dal lavoro con un chiaro obiettivo politico: opporsi al riarmo e alla militarizzazione dell’economia, ma anche denunciare il progressivo spostamento di risorse pubbliche dalle politiche sociali alla produzione di armamenti.

Lo sciopero, sostenuto anche da altre sigle sindacali, avrà un impatto rilevante soprattutto nel settore metalmeccanico, dove si prevede un’adesione significativa di realtà già impegnate in vertenze e lotte sindacali.
«Ci raccontano che investire nella difesa significhi creare lavoro e innovazione. È falso – spiega Guido Lutrario di Usb – L’industria militare è un settore ad alta intensità tecnologica ma a basso impiego di manodopera. Gli investimenti pubblici finiscono per arricchire pochi attori privati, senza ricadute occupazionali diffuse».
Secondo il sindacato, ogni euro speso per nuove armi è un euro sottratto a scuola, sanità, ricerca e trasporti. E non si tratta solo di acquisti: il governo starebbe incentivando il coinvolgimento diretto di aziende strategiche come Leonardo, Fincantieri e Ansaldo in programmi di difesa, fino a includere anche il nucleare civile e militare.

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Leonardo S.p.A., partecipata dallo Stato per oltre il 30%, è inoltre sotto accusa per il suo ruolo come fornitore dell’esercito israeliano. La società – secondo quanto denuncia Usb – contribuisce attivamente a un conflitto che ha già causato oltre 60.000 morti nella Striscia di Gaza. Una partecipazione, affermano i promotori dello sciopero, che coinvolge direttamente anche i cittadini italiani, attraverso le tasse e il lavoro.
«Dire basta significa interrompere questa catena di complicità – si legge nell’appello alla mobilitazione – Significa ricostruire un’idea di Stato non subordinata alla logica della guerra e del dominio».

Ad aderire allo sciopero saranno anche i lavoratori del porto di Genova, uno dei fronti più attivi contro la guerra nel settore operaio con il rifiuto di caricare le navi che trasportano armamenti, in particolare verso Israele.
È José Nivoi del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp) a ricordare l’ultima mobilitazione in ordine di tempo, in coordinamento coi colleghi del porto di Marsiglia, per bloccare una nave che avrebbe dovuto trasportare armi verso Tel Aviv.
Fin dal 2019 i portuali di Genova hanno iniziato una lotta che molto si è concentrata contro l’oppressione del popolo palestinese, ma più in generale si è opposta all’invio di armi verso contesti bellici.

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La protesta non si limiterà alla giornata del 20 giugno. Il giorno successivo, 21 giugno, è prevista una manifestazione nazionale a Roma, con partenza alle 14:00 da Piazza Vittorio.
L’obiettivo è dare visibilità a un fronte sociale e sindacale che rifiuta il modello di sviluppo bellico e propone alternative basate su giustizia sociale, salario, diritti e investimenti nella transizione ecologica.
«Solo chi lavora può fermare la produzione della guerra – conclude USB – Scioperiamo per la pace, contro le bombe e i droni dispensatori di morte».