Ad un anno dal terremoto, l’Emilia resiste con le unghie e con i denti. Vorrebbe tornare alla normalità, anzi: vorrebbe ripartire innovando e dando vita ad un nuovo modello emiliano, ma deve fare i conti con la burocrazia di uno Stato che sembra voler scoraggiare i cittadini, più che sostenerli. GUARDA IL VIDEO

20 maggio 2013. È passato un anno esatto da quando la terra ha tremato forte in Emilia. La scossa del 20 maggio, poi quella del 29. I crolli, i morti, i capannoni che sembravano di carta, l’incredulità di un territorio che, stando alle carte, doveva essere a basso rischio sismico.
E poi ancora la paura, la disperazione, la rabbia verso le istituzioni, le contestazioni da parte di un popolo, quello emiliano, che non è abituato ad elemosinare, ma a rimboccarsi le maniche.

Radio Città Fujiko è tornata nei Comuni del cratere per testimoniare com’è la situazione ad un anno di distanza dal terremoto.
Quello che ci appare è un paesaggio disomogeneo, potremmo dire incoerente. Ci sono le macerie a testimoniare cos’è successo, ma ci sono anche (poche) case fresche d’intonaco, appena ristrutturate, che sembrano un cazzotto di fianco agli edifici puntellati.
Mirandola, nel modenese, è un grosso cantiere circondato da grate in attesa che partano i lavori. La normalità è incrinata da ruspe e betoniere che invadono le strade.
A Rovereto, frazione di Novi, c’è chi va a fare la spesa alla Coop, allestita in una tensostruttura. Ma quello che fa più rumore, in questo paesino, è l’assenza. Recinzioni attorno ad una spianata, dove un anno fa c’era un edificio che poi è stato demolito. Le grate di delimitazione sono ancora lì, attorno ad un vuoto, quasi come un monumento.

Nel nostro viaggio abbiamo incontrato attivisti di comitati, imprenditori che resistono alla chiusura o alla delocalizzazione, lavoratori e cittadini del modenese e del ferrarese che ci hanno detto tutti la stessa cosa: loro sono pronti a ripartire da mesi, ma sembra essere lo Stato a frenare la ricostruzione e a non avere coraggio.
Il primo che incontriamo è Aureliano Mascioli, attivista del comitato Sisma.12. Ci prendiamo un caffè in un bar ricostruito in una casetta di legno. Lui sfoglia la Gazzetta di Modena e legge un articolo che riguarda il Cas, il Contibuto per l’Autonoma Sistemazione. Il quotidiano dice che alcuni cittadini dovranno restituire le somme ricevute a causa di un errore di conteggio dell’Amministrazione. Aureliano scuote la testa e mi spiega che chi è rimasto senza casa ha diritto, fino a dicembre 2014 o al ripristino dell’abitazione, ad un contributo di 200 euro al mese, 350 per i figli.

Roberto, altro attivista del comitato, tenta invece di spiegarmi il complicato meccanismo alla base del contributo per ricostruire o ristrutturare casa. Le cose funzionano più o meno così: lo Stato fa da garante presso le banche per il contributo che esse dovranno elargire ai cittadini, i quali devono presentare un progetto di ristrutturazione o ricostruzione che tenga conto della categoria di danni subiti e di tutta una serie strettissima di parametri. Le banche riavranno il denaro dallo Stato attraverso una sorta di sconto sulle tasse. Il contributo copre il 100% dei danni ma – qui sta il problema – non è a fondo perduto. “Se domani cambia una legge o lo Stato si disimpegna, decide di non fare più da garante – spiega Roberto – le banche possono rivalersi sui cittadini e chiedere di saldare subito il debito oppure prendersi la casa”. Una spada di Damocle sulla testa di persone che hanno perso tutto.

Anche i criteri con cui ricostruire sono al centro delle critiche di Sisma.12. “Abbiamo perso un’occasione – racconta Aureliano – perché si poteva ricostruire rilanciando un territorio, creando una sorta di nuovo modello emiliano che tenesse conto dei criteri del terzo millennio, come le energie rinnovabili o altre forme virtuose. Invece si deve ricostruire tutto com’era e, a parte i criteri antisismici, la situazione che si avrà alla fine del percorso sarà la stessa (se va bene) di prima del terremoto”.
Gli auspici del comitato, però, sembrano utopia se si considera la situazione reale ad un anno dal sisma. Nel Comune di Bondeno, ad esempio, a fronte di più di 1800 ordinanze di sgombero causa inagibilità degli edifici, si anno ancora 1400 persone senza casa (il 10% della popolazione). Quel che balza più all’occhio e che fa dire che la ricostruzione non parte, però, è il dato sulle domande presentate per l’accesso al contributo. A Bondeno sono solo 71, di cui appena 15 liquidate.
“La gente non ha soldi oppure non si fida dello Stato”, spiega Roberto. “Il sistema messo in piedi sembra favorire solo grossi gruppi, grosse aziende che hanno a disposizione molta liquidità. In questa situazione impossibile evitare le infiltrazioni mafiose”.

La conseguenza rischia di essere la fuga, lo spopolamento. Un fenomeno che è già avvenuto, specie nei piccoli centri urbani. Giorgia Vergnani è un’attivista del comitato Magnitudo 5.9 e un’edicolante di San Carlo, frazione di Sant’Agostino. Ci racconta che è durissima continuare la propria attività commerciale, anche per il fatto che circa un terzo degli abitanti se ne è andato.
Come se non bastasse, ci si mette lo Stato a demotivare i cittadini. Avere accesso ai contributi è un’odissea senza fine. La documentazione da presentare è tantissima, ma soprattutto cambia ogni mese. “Sembra quasi che tutta questa burocrazia sia fatta per non dare i soldi ai cittadini”, osserva amaramente Giorgia.
“La Regione – ci spiega Valerio, vetraio di Sant’Agostino – manda due funzionari per una consulenza su come presentare le domande. Il problema è che queste persone vengono per mezza giornata a settimana, coprendo un territorio ampio e pieno di danni. È insufficiente”.

Nonostante questo l’Emilia resiste con le unghie e con i denti. E quando può provvede in autonomia alle mancanze e ai ritardi dello Stato. È quello che, ad esempio, sta facendo Michele Gamberini, titolare della Gibiesse, un’impresa di infissi e serramenti. La scossa del 20 maggio ha fatto crollare una parte del capannone, tra cui anche gli uffici, che ora sono allestiti in un container autocostruito. Fin da subito si sono rimboccati tutti le maniche ed hanno spostato la produzione in un tendone allestito nel piazzale esterno. Michele non ha lasciato a casa nessuno dei 20 dipendenti e non ha chiesto alcuna ora di cassintegrazione. E ancora: la ricostruzione del capannone è fatta a spese proprie, con i soldi dell’assicurazione e senza la sicurezza di ottenere il contributo dallo Stato.
Ma non è finita: le spese sostenute non hanno alcuna agevolazione, sono comprensive di iva al 21%. “Il governo non ha avuto il coraggio di defiscalizzare – spiega Michele – per cui io mi trovo ad essere creditore di 165mila euro nei confronti dello Stato, che me li restituirà in chissà quanti anni, ma i soldi per ripartire servirebbero adesso”.

“Siamo sfortunati due volte – ci dice Aureliano – perché abbiamo subito un terremoto e lo abbiamo subito durante una crisi economica. In più abbiamo il Pd, che governa quasi tutti questi Comuni e la Regione, che è ad uno stato gassoso”.
La determinazione degli emiliani sembra quindi essere l’unica risorsa a disposizione, ma la fatica sta facendo esaurire le energie.
In più c’è ancora la paura. “È una sensazione che ti entra sottopelle – confessa Michele – non è la stessa cosa se non l’hai provata”.
“Ogni rumore, ogni colpo o vibrazione torna l’angoscia negli occhi delle persone – racconta Giorgia – Sabato scorso la terra è tornata a tremare e tutti speriamo che non succeda più”.