Delude la regia di Lievi per Die Fledermaus, operetta in tre atti che offriva al regista mille possibilità di gioco per creare movimento e divertimento, in particolare nel secondo atto, rimarcando il binomio tra la “fantastica voluttà” in cui i personaggi indulgono, come da libretto, e l’imminente catastrofica rovina finanziaria che stava per inghiottire la società austriaca dell’epoca. Convincente la direzione del giovanissimo Sasha Yankeych.

La scelta di Cesare Lievi di usare lo struzzo come animale simbolo dell’impronta registica a indicare come tutti i personaggi non facciano altro che ignorare i problemi piccoli e grandi fino alla futura catastrofe socio economica, è risultata scialba e poco interessante e come unica trovata registica è sembrata insufficiente per permettere alla parte scenica per elevarsi all’altezza della dinamicità e della vorticosità della musica di Strauss figlio e divertire il pubblico. La replica ha cui ho assistito il 27 dicembre ha visto una platea alquanto sguarnita di pubblico che ha alla fine tributato tiepidi applausi agli interpreti e allo spettacolo complessivamente.

Le premesse per un successo c’erano: un titolo perfetto per il pubblico gioioso delle feste, musica inebriante e divertente, costumi dai colori vivaci ed estremamente eleganti, perfetti per la grande soirèe del secondo atto, una scenografia d’effetto pensata appositamente per le strane misure dell’attuale palcoscenico del Comunale Nouveau rivisitando quella realizzata per il Carlo Felice di Genova in cui l’allestimento ha debuttato.

Eppure lo spettacolo è risultato più banale e peggio recitato di tante operette realizzate da compagnie dilettantesche, che almeno ci mettono cuore e passione.

Con poche eccezioni tutto il cast è debole nelle parti recitate, incapace di sostenere e convincere come personaggi senza l’aiuto della tecnica canora. Tante le scene recitate in modo pessimo in particolar modo nel primo atto. Reggono la scena nel primo e alquanto noioso atto, la musica insieme ai costumi e alla scenografia (di Luigi Perego) conditi con un piano luci ben fatto (dell’ottimo Saccomandi). Il regista non ha aiutato affatto i e le cantanti nella parte attoriale le battute sono pronunciate in modo legnoso, affettato, da compagnia di quart’ordine e non da Fondazione Lirico Sinfonica e penso che nello scegliere un cast per un’operetta così famosa e di pregio come Il pipistrello, forse andava ben valutato questo aspetto non secondario nella resa dell’insieme. L’interprete della cameriera Adele, Sara Fanin, ha una voce sottile e squillante che ben si presta al ruolo, ma risulta totalmente inudibile con il pieno orchestrale.

Arriviamo al secondo atto, cuore dello spettacolo. Si attendeva movimento, dinamicità, ebbrezza, voluttà, come recita il libretto. Ci si attendeva che il coro insieme a figuranti bevesse, si muovesse se non addirittura ballasse, in qualche modo ci si attendeva di vedere rappresentate le immagini goderecce proposte dal testo. Nulla di tutto questo: Lievi fa addirittura sedere l’intero coro sul palco, compaiono pochi bicchieri, non c’è un fiume di champagne che travolge gli invitati, non c’è la favolosa magia. Ci sono costumi sgargianti, ma nessuna gioia, nessuna voluttà, c’è staticità tranne che nel momento effettivo del ballo che delude comunque per la mancanza di un corpo di ballo adeguato.

Il sovrintendente del Comunale Fulvio Macciardi presentando la serata nel foyer ha scherzosamente detto che i corpi di ballo non si usano più nei teatri lirici. Certo, il Comunale ha dismesso il suo corpo di ballo molti anni or sono per motivi di risparmio, ma non è che non ci siano più ballerini di talento che possano essere scritturati all’occorrenza. Tanti sono i danzatori disoccupati che si presterebbero se adeguatamente pagati a prestare la loro opera per una produzione del Comunale di Bologna. Il teatro invece ultimamente preferisce chiamare gli allievi e le allieve di scuole di teatro o, come in questo caso, della scuola di Musical BSMT di Bologna che si sono rivelati inadeguati al compito affidato trascinando lo spettacolo a livello di saggio scolastico nel momento in cui il ballo avrebbe dovuto suscitare applausi fragorosi divenendo un momento centrale nella rappresentazione sia musicalmente che teatralmente. Del ballo è restato il piacevole eco della musica di Strauss che ha in qualche modo messo una pezza sull’imbarazzante esecuzione coreografica.

Un opera che dall’inizio alla fine parla di gioia di vivere, di orgia e evoca la frenesia di una festa, cade nella staticità del movimento scenico e in una certa cupezza dell’agire scenico e in un certo indulgere sui toni e momenti patetici, in contrasto con i colori di scene e costumi e l’allegrezza dei temi musicali.

Consolano un paio di dialoghi ben recitati nel terzo atto tra Frank, il direttore del carcere, interpretato dal bravo Nicolò Ceriani e la guardia carceraria, per così dire, interpretata dall’attore Vito. Vito è stato chiamato, come ha sottolineato il sovrintendente, per divertire il pubblico, come nella versione di Gevova ha fatto l’attore Udo Samel il quale parlava in tedesco inserendovi ripetutamente l’esclamazione genovese “belin”. Vito ha recitato molto bene la parte della guardia ubriaca aggiungendo battute non facenti parte del libretto che hanno ben funzionato nell’economia delle scene. Divertentissimo il dialogo con il direttore del carcere e ogni suo passaggio in mezzo al momento delle agnizioni finali con tutti i personaggi presenti in scena per lo scioglimento della vicenda.

Ci sono cantanti che lavorano bene in scena anche se non cantano, che sanno dominare la scena rimanendo nel loro personaggio anche pronunciando battute, come ha fatto Ceriani e come sanno fare molti altri agendo scenicamente, altri risultano più affettati del peggior dilettante. Penso che su questo versante i registi debbano ancora lavorare tanto con i protagonisti dei cast operistici per offrire prodotti artistici di alto livello in tutti gli aspetti e non solo sul versante canoro.

Nel caso di questo Die Fledermaus il risultato del lavoro di tessitura tra le diverse componenti dell’operetta è stato molto squilibrato dando l’impressione di un progetto con elementi molto ben curati ed altri alquanto trascurati. Il tutto risulta goffo, ma sfavillante. In fondo un po’ dell’illusione del bel mondo la regia riesce a trasmetterla, tuttavia sembra come se nemmeno Lievi credesse fino in fondo nemmeno lui nel suo voler raccontare come questi ricchi viveur della Vienna degli anni ’70 dell’800 abbiano ingannato tutti e prima di tutto se stessi illudendosi di poter vivere in quel mondo fittizio per sempre senza accorgersi del baratro che avevano davanti. Sembra che Lievi si sia accontentato di accennare la sua idea, di accennare l’illusione e la follia, di accennare l’orgia senza andare fino in fondo, mostrando il solo struzzo ha evitato di narrare tutto il resto lasciandolo sottinteso dando però quell’impressione di regia scialba che ha perso mille occasioni per farsi ricordare e lasciare un segno nell’uditorio.

Nel cast apprezzabile canoramente Mihaela Marcu (Rosalinde), sebbene insopportabile nelle parti teatrali. Più equilibrata invece la resa di Mert Sungu nei panni di Eisenstein e di Francesca Micarelli nei panni di Ida. Miriam Albano en travesti vestendo i panni del principe Orlofsky è credibile a livello canoro, ma un disastro nella recitazione affettatissima.

Confidiamo in progetti meglio realizzati per la nuova stagione che proporrà molti omaggi a Puccini e momenti wagneriani annunciati in forma di concerto diretti dalla direttrice Lyniv. Buon anno e buona attesa della stagione 2024.