L’Unione Europea discute della riforma di Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne. Sul tavolo l’ipotesi di farla diventare un vero e proprio corpo di polizia, capace di sostituirsi agli Stati. L’integrazione europea, quindi, rischia di essere fondata sulla polizia anziché sulla democrazia. L’intervista a Giuseppe Campesi, ricercatore ed autore di “Polizia della frontiera – Frontex e la produzione dello spazio europeo”, che oggi pomeriggio sarà al Tpo.

Progetto Frontex: l’opinione di Giuseppe Campesi

Schengen, hot spot, Frontex. Sono i termini che sentiamo con molta frequenza associati al tema dell’immigrazione e della presunta emergenza che l’Europa sta (goffamente) fronteggiando.
Per approfondire questi temi, verso la manifestazione dei migranti del prossimo primo marzo, questo pomeriggio al Tpo verrà presentato il libro “Polizia della frontiera – Frontex e la produzione dello spazio europeo” di Giuseppe Campesi, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, dove insegna Sociologia del diritto e Sociologia dei fenomeni politici.

Il libro rappresenta il primo tentativo di analizzare dal punto di vista delle scienze politiche, giuridiche e sociali, l’impatto che l’agenzia Frontex ha avuto sulle politiche di controllo delle migrazioni a livello europeo. Ripercorrendo la genesi dell’agenzia e descrivendone in dettaglio il funzionamento concreto, il libro racconta anche molto dell’immaginario europeo creatosi anche attraverso i confini.
Frontex, attiva ormai da 10 anni, ha avuto un ruolo decisivo nella produzione di un immaginario della frontiera europea – spiega Campesi ai nostri microfoni – Da quando c’è questa agenzia si è iniziato a pensare alla gestione delle frontiere come un’impresa comune“. Vista in altro modo, Frontex ha eroso pezzi della sovranità nazionale sul controllo delle frontiere.

In questa chiave si possono leggere, secondo il ricercatore, anche molte delle questioni europee di cui si discute negli ultimi tempi.
Un momento cruciale si è registrato a cavallo tra il 2013 e il 2014, quando ci fu uno scontro diplomatico fortissimo attorno ad un emendamento che voleva modificare il Trattato di Schengen. In particolare, si prevedeva che le persone soccorse in mare da Frontex fossero fatte approdare nel porto sicuro più vicino che, tenendo conto della Convenzione di Ginevra, non poteva più essere la Libia, dove i migranti sono sottoposti a torture e trattamenti inumani.
Una scelta che sollevò le proteste di Italia e Malta, che avrebbero dovuto farsi carico dell’assistenza di tutte le persone salvate in mare.

Anche gli hot spot, le attuali strutture per l’identificazione di tutti i migranti che approdano in Europa, possono essere letti nello stesso solco. “Queste strutture – sostiene Campesi – rappresentano una sorta di commissariamento a Paesi come l’Italia e la Grecia, in cui a essere controllate sono le autorità nazionali e la loro applicazione dei regolamenti europei, come quello di Dublino, più che al controllo effettivo dei migranti”.
Allo stesso modo, le minacce della sospensione di Schengen possono essere legge come un messaggio chiaro lanciato ai Paesi dell’Europa del sud. Una leva politico-diplomatica più che una reale volontà di mettere in discussione la libera circolazione all’interno dell’Unione.

La posta in gioco più grande, però, riguarda la riforma di Frontex di cui si sta discutendo oggi nell’Ue. “La proposta sul tavolo – sottolinea Campesi – prevede di farne un vero e proprio corpo di polizia europea, mentre ora ha solo funzioni di coordinamento”.
Se la proposta passasse, dunque, sarebbe un primo elemento concreto dell’integrazione europea, che potrebbe sostituirsi ed intervenire al posto delle polizie dei singoli Stati nazionali.
È però pericoloso ed inquietante – osserva il docente – che si cerchi l’integrazione europea a partire dalla polizia invece che dalla democrazia. Oggi però l’Europa ha il volto di uno stato di polizia”.