Ogni settimana in Italia vengono compiuti in media due o tre femminicidi e in molte occasioni l’assassino non si “limita” ad uccidere la moglie/compagna, ma si accanisce anche sui figli e le figlie, propri o della relazione precedente della donna. Il caso finisce sui giornali e sulle tv e, nel giro di pochi giorni, i riflettori si spengono e ci siamo scordati l’identità dell’omicida.
Se invece a uccidere i figli è la madre, com’è successo recentemente in un caso di cronaca nera, ecco che la narrazione mediatica cambia, sia nei termini utilizzati che nella durata della copertura.
La discriminazione di genere nel racconto del figlicidio
In particolare, quando ad uccidere un figlio o una figlia è la madre, le cronache si fanno copiose, dense di particolari morbosi e scabrosi, ma soprattutto prolungate nel tempo, per giorni, settimane o a volte anche mesi.
Mentre per l’omicida uomo vengono sfoderate parole giustificatorie, tese a sottolineare lo stress vissuto, una possibile assenza di lucidità, fino ad accusare implicitamente le vittime di aver provocato o favorito in qualche modo l’atto estremo, lo stesso trattamento non è riservato alle infanticide, che vengono descritte come lucide, crudeli ed efferate.
Da Annamaria Franzoni in poi, la violenza femminile viene amplificata a dismisura e la donna, ancor prima di essere processata, viene sottoposta a giudizio morale anche in assenza di elementi sufficienti ad attribuirle la colpevolezza o prima di averne ascoltato la versione.
Non è tanto il giustizialismo del giornalismo e della politica a colpire, quanto la diversità di trattamento che viene riservata agli autori di delitti a seconda del loro sesso e del loro genere. Quasi che un reato violento fosse più grave se compiuto da una donna, cui la società attribuisce caratteristiche di mansuetudine e docilità.
In questo modo il giornalismo italiano continua a riprodurre gli stereotipi di genere e, più in generale, l’impronta patriarcale. La violenza di un omicidio è solo l’ennesima cartina di tornasole di quanto uomini e donne siano visti in chiave diversa a seconda delle funzioni sociali loro attribuite, fino a sostenere una sorta di patrimonio genetico che dovrebbe caratterizzarli anche in situazioni estreme, come è appunto un omicidio.
In questa chiave, le manifestazioni di violenza maschile vengono in sostanza descritte come eccessi di utilizzo della forza, che comunque fa parte delle loro prerogative, mentre analoghi episodi al femminile vengono narrati come una sorta di tradimento del patto sociale.
Da ormai diversi anni gli iscritti all’Ordine dei giornalisti hanno l’obbligo della formazione continua, uno strumento che dovrebbe aiutare chi fa questo mestiere a farlo nel modo migliore possibile, più corretto e più competente. Tra i corsi offerti gratuitamente per maturare i crediti necessari, molti insistono sulla corretta narrazione di genere, ma evidentemente senza particolare successo.
Forse il punto non riguarda solamente la condotta del singolo giornalista e di come racconta la cronaca nera, ma del più generale spostamento dell’informazione verso la sensazione, la morbosità, che a sua volta è funzionale a meccanismi pubblicitari che garantiscono maggiori remunerazioni.
Il problema non riguarda solamente la cronaca nera, ma anche la politica ed altri settori fondamentali dell’informazione. Ciò che prima era riservato a riviste scandalistiche ad uscita settimanale e di qualità infima, oggi, nell’era degli algoritmi e dei ranking anche sull’informazione digitale, sembra diventato un modello maggioritario.
Chi fa questo mestiere dovrebbe interrogarsi sulla questione e immaginare anche soluzioni. Ne va della qualità del giornalismo e, di conseguenza, della stessa democrazia.