Data unica a Bologna per “Behind the light” di Cristina Morganti, un solo che rompe i canoni della gentilezza per una confessione sincera e appassionata della propria realtà di donna, di artista, di danzatrice e coreografa che ha passato 52 anni della propria vita a contatto con la danza. La performance passa attraverso la danza, la parola, il canto, il grido e il silenzio per far riposare i tanti pensieri nella testa. La crudezza della narrazione delle disavventure durante e dopo il covid, della perdita del lavoro, della morte dei propri genitori, della depressione con aumento del peso e la lotta per riprendere il lavoro per questo solo è resa non melodrammatica e grottescamente comica grazie alla lettura da un quaderno, che già allontana dall’immediata adesione empatica, e soprattutto dalla lettura meccanica a velocità massima per suscitare quasi il riso per l’eccesso di dolori rovesciati sul pubblico in un solo minuto di racconto mutando di segno tante disgrazie.

In apertura una musica tecno molto fastidiosa investe il pubblico, sorridente Morganti appare in scena chiedendo se la musica disturba. Dichiara che è un bene che si sia prodotto tale disturbo in noi, era voluto perché è tempo di smetterla con la gentilezza e l’accoglienza, è il momento di dire le cose come stanno e gridare il proprio odio verso quello che fa stare male. Certo, era solo uno scherzo, una provocazione. Un modo per avviare lo spettacolo con qualcosa di forte. Seduta su una rassicurante e buffa poltroncina di plastica fuxia, racconta lo spirito della performance, nulla di terribile può arrivare al pubblico da una donna sorridente seduta su una poltrona fuxia. Tutto sembra tranquillo, giocoso. Un frammento danzato come assaggio per far notare la morbidezza dei suoi movimenti, la sua leggerezza, fluidità dell’agire, scopriremo a fine spettacolo che quel rimarcare la morbidezza era anch’esso autoironico perché segno distintivo delle coreografie di Pina Bausch con cui ha danzato per vent’anni e la morbidezza le viene rimproverata, quando va in scena, come un chiaro segno della sua filiazione dalla poetica di Baush come pure un eventuale utilizzo, al posto della morbidezza dei gesti, di movimenti spigolosi e ritmati, le verrebbe contestato come un rinnegare quel legame con Bausch. Al pari le dovrebbero essere vietati i tacchi alti, molto usati nelle coreografie a Wuppertal, i sottoveste, i fon, le musiche jazz, le arie d’opera, per non ripetere il già visto ed ascoltato in quei lavori della grande maestra. Per questo motivo a ritroso comprendiamo quanta autoironia e dissacrazione ci sia in ogni momento dello spettacolo quando Cristina Morganti mette e toglie, o scaraventa in quinta scarpe con i tacchi alti, utilizza due fon, arie d’opera e il sottoveste.

Il danzare lieve e giocoso dopo la narrazione di tutti i guai occorsi dalla pandemia in avanti all’artista, lascia il posto a un filmato in cui Morganti urla disperatamente su un sentiero, poi in un bosco e in una distesa verde senz’altra anima viva, dando idea della solitudine degli anni passati dentro quella nuvola di pensieri e problemi e dell’urgenza di liberarsi di tanto dolore mettendo anche da parte la gentilezza per fare largo a “rabbia e dispetto”.

Non perde mai la bussola dell’ironia lo spettacolo perché questa rabbia e quel dispetto sono presentati in forma di dialogo cantato, in forma di recitativo lirico, tra la donna Cristina, con le sue fragilità e i suoi acciacchi fisici dovuti al continuo allenamento e all’età, con la danzatrice Morganti abituata a una serissima autodisciplina in cui il riposo non deve avere spazio e “l’energia genera energia”. Esilarante questo finto duetto cantato in cui il tema del contendere è il training giornaliero alla sbarra saltato dalla dolorante Cristina da cui il rimprovero severo della se stessa inflessibile custode delle regole della danza. Se abbandoni la danza, anche per un giorno, si rischia che sia lei ad abbandonarti, specie a una certa età, asserisce la parte più seria di sé. Morganti qui svela tutte le fragilità della vita d’artista con invidiabile capacità comica. C’è l’imbarazzo di presentarsi in scena a 57 anni danzando, la paura del giudizio, i sensi di colpa per la stanchezza, il dolore per i tanti pezzi del proprio corpo che mal sopportano quella continua autodisciplina ed allenamento, c’è il rapporto complesso con i cibo, in particolar modo con i maledetti dolci, lo stare a dieta, o l’illusione di seguire la dieta cadendo ironicamente nei tranelli del “senza zuccheri aggiunti”, c’è l’anelito del riposo ristoratore e insieme l’ansia per la perdita di agilità in caso di un cedimento alla regola del training continuo.

Divertentissima è la parte di spettacolo dedicata al training durante il covid. Mescolando tutto quello che ha trovato di disponibile in rete, che va dal training del Royal Ballet, al flamenco, al pilates fino alla zumba, la danzatrice propone un esilarante pezzo danzato sulla musica delle lezioni di zumba che fa ricordare a tutti/e cos’ha significato cercare di tenersi in forma durante i lockdown con un misto di divertimento e disperazione per la ripetitività dei gesti. Com’è toccante e artisticamente alto il frammento in cui Morganti trasfigura in coreografia il toccarsi i punti di dolore del corpo, una ricognizione puntuale delle sofferenze quotidiane che è anche un prendersi cura di sé e al contempo un’esemplificazione di come far diventare danza movimenti della nostra vita innalzandoli alla qualità teatrale.

Alternando la danza al parlato e ai filmati, Morganti fa entrare e uscire anche l’uditorio da diverse situazioni e stati d’animo. Su un’aria d’opera, con un elegante camicetta a rete luccicante, Morganti usa due fon per sparare un aria i capelli seduta sul pavimento mentre la voce della cantante narra la propria follia data dai troppo pensieri che si agitano nella testa. Dalla danza energica, si passa a un dialogo interiore dubitativo, un sempre ironico mettere in discussione le proprie scelte che perde anche la parte cantata, presentata precedentemente, per farsi solo mimico. Si passa dalla calma dell’acqua che scorre in mood meditativo per far scorrere tutti i pensieri nella testa, alla rappresentazione della felicità attraverso un canto portoghese, cantato sommessamente sdraiata per terra, che finisce in un pianto dirotto. Cristina Morganti mostra come abbia superato la crisi personale e artistica che l’ha investita, usando l’autoironia per far svaporare i giudizi troppo severi su se stessa, sul suo corpo e la sua età e concedendosi la sincerità del dire quello che le pare e che tenersi dentro avvelena. Serve gridare per espellere il veleno, serve odiare le piccole cose che attoscano l’anima, siano gli spettacoli concettuali in mutande, o i bandi under 35, o le mail degli uffici stampa inviate alle nove di sera per le correzioni ai materiali. Bisogna ridere dei giudizi altrui sul proprio operato artistico forti della propria esperienza e del fatto che tutto il lavoro fatto, proprio come i vent’anni con la grande Pina Bausch, è parte di lei, ed è nell’ordine delle cose che la sua danza o le sue coreografie portino tracce di quel lavoro, come possono esserci elementi di segno opposto senza tradimento. Si diventa se stessi/e attraverso tutto quello che si è appreso e fatto, ma il frullato che ne fuoriesce è altro pur contenendo tutti gli ingredienti che vediamo passare sullo schermo in forma di carrellata di foto personali e del contorno culturale e sociale degli ultimi 50 anni. L’artista incamera, assorbe da tutto quanto percepisce e rielabora in forma propria. Questo “solo” è una rielaborazione straordinariamente divertente, gioiosa, disperata e veramente sincera del vissuto personale e artistico di Morganti, il genere di spettacolo che tante artiste sognano di poter scrivere e interpretare, il perfetto spettacolo per spettatori e spettatrici che non si vergognano di ridere a crepapelle traslando i pensieri della performer sulla propria realtà intima traendone coraggio. Grazie di cuore per questo prezioso regalo a Cristina Morganti.