Ieri, mercoledì 5 febbraio, il gruppo ribelle M23 sostenuto dal Ruanda, ha ripreso la sua offensiva nell’est della Repubblica Democratica del Congo, violando il cessate il fuoco unilaterale che aveva proclamato solo due giorni prima per “motivi umanitari”. L’avanzata dei miliziani ha aggravato una crisi già drammatica, con un bilancio che, secondo l’Onu, è di almeno 2.900 morti nella città di Goma, capoluogo del Nord Kivu. Il numero effettivo delle vittime potrebbe essere ancora più alto, poiché il bilancio è provvisorio e le operazioni di recupero sono ostacolate dalla persistenza dei combattimenti.
La guerra in Repubblica Democratica del Congo
L’M23, acronimo di “Movimento del 23 Marzo”, è un gruppo ribelle congolese composto principalmente da membri della comunità tutsi, che si oppone al governo centrale di Kinshasa. La sua offensiva è supportata militarmente dal Ruanda, come più volte denunciato dalle autorità congolesi e da organismi internazionali. Kigali, tuttavia, ha sempre negato ogni coinvolgimento diretto, sostenendo che la crisi sia frutto di tensioni interne alla Repubblica Democratica del Congo.
Dopo aver conquistato Goma il 27 gennaio scorso, il 3 febbraio l’M23 aveva annunciato un cessate il fuoco, assicurando di non avere intenzione di proseguire verso altre città, in particolare verso Bukavu, capoluogo del Sud Kivu. Tuttavia, all’alba del 5 febbraio, i ribelli hanno ripreso le operazioni militari, riuscendo a prendere il controllo della città mineraria di Nyabibwe, situata a circa cento chilometri da Bukavu. La città è un centro nevralgico per l’estrazione di minerali preziosi, tra cui coltan e cassiterite, risorse strategiche che alimentano il mercato globale dell’elettronica.
Le autorità di Kinshasa hanno reagito con fermezza alla ripresa dell’offensiva, accusando l’M23 e il Ruanda di aver orchestrato un piano per destabilizzare la regione. «La proclamazione del cessate il fuoco era una farsa», ha dichiarato Patrick Muyaya, portavoce del governo congolese, sottolineando come la tregua fosse un pretesto per consolidare le posizioni militari dei ribelli.
Nel frattempo la crisi umanitaria che si è prodotta è gravissima. In seguito alla presa di Goma, due milioni di persone sono state sfollate per i combattimenti, esponendo la popolazione civile agli attacchi di varie milizie. Più in generale, però, si in Congo si contano 21 milioni di persone che hanno bisogno di aiuti umanitari.
La comunità internazionale sta cercando di intervenire per evitare un’escalation del conflitto. Paesi come l’Angola e il Kenya, impegnati nei negoziati di mediazione, stanno cercando di promuovere una soluzione diplomatica che metta fine alle ostilità. Tuttavia, il rischio di un’estensione del conflitto è sempre più concreto, con la possibilità che il Ruanda venga direttamente coinvolto in un confronto su vasta scala con il governo congolese.
«La guerra potrebbe estendersi su scala regionale», spiega ai nostri microfoni Francesca Caruso, ricercatrice e esperta di risoluzione dei conflitti in Africa Centrale, intervistata da Alessandro Albana in “Bologna e dintorni”.
L’inasprimento del conflitto nell’est della RDC rischia di indebolire il governo del presidente Félix Tshisekedi, rieletto per un secondo mandato nel dicembre 2023. Il presidente congolese si trova ora di fronte a una doppia sfida: da un lato, fronteggiare l’avanzata dell’M23 e la crescente instabilità nel Nord e Sud Kivu; dall’altro, mantenere il sostegno internazionale e garantire il controllo sulle risorse strategiche del Paese.
Il conflitto nell’est della Repubblica Democratica del Congo è alimentato da una complessa rete di interessi economici, etnici e geopolitici, con il coinvolgimento di attori regionali e internazionali. Il controllo sulle ricchezze minerarie continua a essere uno dei principali motori della violenza, rendendo ancora più difficile trovare una soluzione duratura.
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