Era il 15 dicembre 1972 quando, dopo una battaglia dal basso che è costata la galera a tanti giovani che si rifiutavano di fare il servizio militare e l’impossibilità lo Stato di gestire la detenzione di un numero di “disertori” (così venivano considerati all’epoca), fu approvata la legge sull’obiezione di coscienza.
50 anni dopo, la leva è stata abolita e il servizio civile continua a rappresentare un’opportunità per molti giovani, ma il militarismo è stato sconfitto? A giudicare da ciò a cui abbiamo assistito nei primi mesi della guerra in Ucraina e dalle spese militari crescenti non sembrerebbe.

Militarismo: quanto ne è rimasto a 50 anni dalla legge sull’obiezione di coscienza?

50 anni fa veniva approvata la legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare. Ci volle ancora tempo per arrivare a una legge equa. Il servizio civile, infatti, venne inizialmente inteso in senso punitivo e chi lo sceglieva doveva prestare 8 mesi in più rispetto alla naja.
Oggi, che la leva obbligatoria è stata abolita, il servizio civile non viene più considerato una punizione, ma un’opportunità. In Emilia-Romagna, ad esempio, la Regione si appresta a pubblicare un bando che permetterà a oltre 3.700 ragazze e ragazzi di avere accesso ad attività pacifiche e nonviolente, utili per la comunità. «La pace è un valore universale da difendere ora più che mai», ha commentato l’assessore regionale Igor Taruffi.

Ma gli entusiasmi vengono necessariamente smorzati se si osserva cosa fa lo Stato in materia di spese militari. La stima preliminare effettuata dall’Osservatorio Mil€x, a partire dalle Tabelle presentate dal Governo con la nuova Legge di Bilancio, registra un aumento di oltre 800 milioni per il 2023. Si passa infatti dai 25,7 miliardi previsionali del 2022 ai 26,5 miliardi stimati per il prossimo anno.
Non va meglio in Parlamento, dove è appena stata approvata una risoluzione della maggioranza per appoggiare l’intenzione del governo di prorogare fino alla fine del 2023 l’autorizzazione a inviare armi all’Ucraina.

Valerio Minnella fu uno dei primi obiettori di coscienza e ha pagato col carcere il suo rifiuto delle armi. È dunque la persona adatta a cui chiedere un bilancio sul militarismo e l’antimilitarismo a 50 anni dall’approvazione della legge.
«Un certo tipo di cultura, ad esempio che considera il servizio militare obbligatorio un’idiozia è sicuramente passato nella mentalità di tutti, anche grazie alle 800mila persone che hanno scelto il servizio civile – osserva Minnella – Però la cultura militarista che considerano necessari l’esercito non più di leva ma professionale, le armi e le spese militari ancora esistono».

Minnella sottolinea da un lato lo scollamento tra il sentire di cittadine e cittadini e la classe dirigente e per farlo cita tutti i sondaggi sull’invio di armi all’Ucraina, che hanno visto italiane e italiani in maggioranza contrari.
Così come constata che nel mondo della comunicazione di oggi ci sia molto meno spazio rispetto a trent’anni o cinquant’anni fa per posizioni diverse, non solo sul tema del militarismo, ma anche per ciò che riguarda il lavoro, i diritti umani o civili.
«Oggi c’è un unico monoblocco culturale, in cui tutto si muove con le stesse parole d’ordine», constata.

A 50 anni dall’approvazione della legge, dunque, alcuni passi avanti sono stati fatti, ad esempio per ciò che riguarda la cultura militarista in senso stretto, come il nonnismo e il rapporto gerarchico. Tuttavia sul versante della violenza, del ricorso alla guerra per risolvere i conflitti internazionali, ma anche come strumento per alzare il pil e i guadagni dell’industria militare, c’è ancora molto lavoro da fare.
«Una coscienza che immagini di costruire un’alternativa di pace, di difesa nonviolenta, di costruzione di una società che abolisca pian piano gli Stati e i confini, in maniera che le guerre diventino impensabili per il fatto stesso che non ci sono più confini, è una cosa da cui siamo ancora molto molto lontani», conclude Minnella.

ASCOLTA L’INTERVISTA A VALERIO MINNELLA: