A Milano le femministe imbrattano la statua di Indro Montanelli ricordando quando comprò una bambina in Etiopia. A Bologna Hobo rivendica l’imbrattamento della statua “L’amor patrio e il valor militare” che ricorda re Umberto I, mandante della strage di lavoratori da parte del generale Bava Beccaris. Una riflessione con Wu Ming 2 e Giulia Blasi.

Statue di Montanelli ed Umberto I sfregiate, il commento di Wu Ming 2

La storia ritorna prepotentemente ad essere un campo di battaglia nel presente e lo fa attraverso alcune azioni che hanno riguardato due statue. Da un lato il monumento che ricorda il giornalista Indro Montanelli a Milano, dall’altro “L’amor patrio e il valor militare” a Bologna, recentemente ricollocata sulla facciata di Palazzo D’Accursio, che celebra re Umberto I.
Entrambe le statue sono state imbrattate con della vernice (fucsia nel primo caso, rossa nel secondo) da parte di cittadine e cittadini che hanno voluto ricordare ciò che viene rappresentato dalla celebrazione di quei personaggi.

A Milano l’azione è stata compiuta da Non Una di Meno durante lo sciopero femminista dell’8 marzo. La statua di Montanelli è stata ricoperta con una vernice lavabile (che è stata prontamente rimossa il giorno successivo) come azione dimostrativa rispetto all’operato del noto giornalista quando era un soldato fascista impegnato nella “campagna d’Etiopia”.
Come lo stesso Montanelli ammise e rivendicò candidamente molti anni dopo, in Etiopia “acquistò” dal padre una bimba di 12 anni, allo scopo di farne sua moglie. Per questi motivi, le femministe hanno voluto ricordare che il giornalista fu uno stupratore pedofilo e colonialista.

A difesa della memoria di Montanelli si sono scagliati diversi giornalisti (maschi) italiani, tra cui alcuni collocati nell’area politica della sinistra. Tra questi Luca Telese ed Enrico Mentana, che hanno definito anacronistico e decontestualizzato il giudizio ex post espresso su Montanelli.
L’apologia di Telese, in particolare, sostiene che non si possa valutare l’operato di Montanelli con i criteri di oggi.

A ben vedere, però, i rapporti sessuali con una dodicenne erano considerati un reato anche all’epoca. Il codice penale italiano entrato in vigore nel 1930 (il famoso Codice Rocco) all’articolo 519 puniva con la reclusione da 3 a 10 anni chi faceva sesso con minori di 14 anni. La campagna coloniale italiana di Etiopia si svolse tra il 1935 e il 1936. Fu in quegli anni che Indro Montanelli “acquistò” una bambina di 12 anni, usandola come “moglie”.
Nel 1937 la prima legge razziale proibì il “madamato”, l’acquisto di schiave bambine nelle colonie. La ragione non riguardava i diritti umani ma la razza: il regime fascista voleva fermare il meticciato.
Detta in altro modo, se fosse stato in patria Montanelli sarebbe stato un criminale, punibile col carcere, poiché ciò che ha compiuto era reato da almeno 5 anni.
Nelle colonie, invece, gli “italiani brava gente” hanno avuto una finestra di 7 anni per compiere violenza sessuale e pedofilia.

“Ogni volta che c’è una manifestazione femminista c’è sempre qualcuno che deve venirci a dire come protestare” commenta ai nostri microfoni Giulia Blasi, giornalista che si è occupata della vicenda con un articolo intitolato “Montanelli: la vernice si cancella, il resto no “.
Per la giornalista, chi celebra Montanelli e lo ritiene un grande maestro del giornalismo, dimentica sempre chi ha deciso che fosse un grande, come è arrivato ad esserlo. “Il problema è che noi facciamo dei totem di persone il cui contributo intellettuale è limitato, perché per loro metà della popolazione mondiale non esiste”, continua Blasi.

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L’episodio bolognese riguarda invece un’altra storia, che precede quella dell’Italia fascista. L’amministrazione comunale guidata da Virginio Merola ha recentemente ricollocato sulla facciata del municipio la statua “L’amor patrio e il valor militare“, opera di propaganda monarchica e militarista dedicata a re Umberto I.
Durante la cerimonia di re-inaugurazione della statua, il sindaco ha battibeccato con un cittadino che ricordava i crimini di cui si macchiò Umberto I. Il re, infatti, è considerato il mandante della strage di lavoratori compiuta dal generale Fiorenzo Bava Beccaris durante i moti di Milano del maggio 1898.

Tre anni dopo Umberto I fu ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci che con il suo gesto volle apertamente vendicare la strage di cittadini che erano scesi in strada contro le condizioni di lavoro e l’aumento del prezzo del pane.
La statua “L’amor patrio e l’amor militare” era stata rimossa dai repubblichini di Salò come gesto contro la casata Savoia considerata “traditrice” per aver firmato l’armistizio. Settant’anni dopo, però, il sindaco di Bologna ha voluto ricollocarla.
La notte scorsa, infine, gli attivisti del collettivo Hobo hanno macchiato la statua con vernice rossa, che ha un valore simbolico proprio sul sangue fatto versare da Umberto I.

Lo scrittore Wu Ming 2, che da tempo è impegnato assieme a Resistenze in Cirenaica in un’operazione di ricostruzione storica e memoria attiva, commenta la vicenda bolognese e osserva come attraverso la memoria e i monumenti si faccia politica e come si modifichi il paesaggio urbano, condizionando ciò che le persone vedono, vivono e pensano.
“Da un lato della ricollocazione non si sentiva il bisogno – osserva Wu Ming 2 – ma se decidi di farlo per valorizzare il restauro, dovresti trovare il modo affinché questa ricollocazione venga contestualizzata e non ritorni ad essere quello che era, cioè una celebrazione di Umberto I“.

Lo scrittore fa alcuni esempi di monumenti controversi in giro per l’Italia che sono stati risemantizzati, risignificati e contestualizzati. A Bolzano il bassorilievo che compare sull’ex Casa del Fascio raffigura le conquiste del fascismo. Invece che per la rimozione, Bolzano ha optato per la proiezione di una frase luminosa di Hannah Arendt che dice “nessuno ha il diritto di obbedire”.
Il problema che si è manifestato a Bologna, quindi, non è la ricollocazione della statua in sè, ma il fatto che ciò sia stato fatto in modo acritico.

Wu Ming e Resistenze in Cirenaica portano avanti una battaglia “odonomastica”, che interviene sulla toponomastica della città, andando a spiegare, integrare il senso (o addirittura cambiarlo) ai nomi delle strade che ricordano un passato fascista e coloniale.
“Abbiamo anche catalogato il tipo di interventi che si possono fare – osserva lo scrittore – In nessuna delle nostre categorie, però, c’è il puro e semplice imbrattamento. Dal nostro punto di vista spiegare che cosa è stato fatto e che sia anche meno contestabile o definibile ‘vandalismo’ è più efficace”.

ASCOLTA L’INTERVISTA A WU MING 2: