Ha debuttato al Comunale Nouveau il Trittico di Puccini per la regia di Pier Francesco Maestrini con rimandi danteschi. Sul podio il Maestro Roberto Abbado per questo terzo omaggio, nella stagione del Teatro Comunale di Bologna, al compositore nel centenario della morte. Nel Tabarro spiccano l’eccellente Franco Vassallo nel ruolo di Michele, padrone del barcone su cui si consuma la tragedia e le due cantanti Chiara Isotton, che interpreta la moglie di Michele, Giorgetta e Cristina Melis, nei panni di Frugola che commuove nella sua, pur breve parte, in cui loda il bel gatto soriano e sogna una casetta con l’orticello. Il secondo atto unico, Suor Angelica è sorretto dalla bravura di Chiara Isotton, ma la musica in generale non entusiasma, risulta a tratti incolore e non ha momenti che rimangono impressi nella mente e nel cuore. L’ultimo atto unico della serata, Gianni Schicchi vede trionfare Roberto de Candia nel ruolo del titolo e diverte moltissimo per l’interpretazione grottesca e ironica dell’intera famiglia del defunto Buoso Donati.

Era intenzione di Puccini, racconta il regista Maestrini nelle note sul libretto, far riferimento nel trittico all’inferno, purgatorio e paradiso di Dante. Poi però il riferimento esplicito rimase solo nell’ultimo atto unico, Gianni Schicchi. Puccini immaginava di poter far compiere ai suoi personaggi e al pubblico un viaggio nell’aldilà, similare a quello compiuto dal sommo poeta, nell’arco delle tre brevi opere. Eppure le anime dannate degli scaricatori di porto del Tabarro, costrette a un eterno lavoro di grande fatica, ben si riconnettono ai dannati dell’Inferno e le suore di clausura del convento di Suor Angelica, a cui è impedita qualunque trasgressione come ridere o avere desideri, ben si possono identificare con anime del purgatorio in attesa di una redenzione e di una possibile ascesa dal purgatorio al paradiso. Suor Angelica, ragionando con le consorelle sul tema dei desideri, afferma “I desideri sono i fiori dei vivi, non fioriscono nel regno della morte” come riferimento diretto alla preghiera di San Benedetto nel Paradiso che può lasciare intendere come nel convento di clausura tutte loro non sono più pienamente vive, ma fanno già parte di un mondo ultraterreno, definitivamente diviso dal mondo dei vivi, dove non possono fiorire i desideri.

La scelta di creare un filo conduttore tra le tre parti del Trittico è convincente e convince al pari che questo elemento unificatore sia il viaggio dantesco. Iconograficamente, Maestrini, insieme allo scenografo Nicolàs Boni e alla costumista Stefania Scaraggi, si sono lasciati ispirare dalle illustrazioni di Gustave Dorè della Divina Commedia e dal film fantasy “Al di là dei sogni” del regista Vincent Ward a cui si devono le atmosfere e i colori delle scenografie virtuali filmiche proiettate sul fondali, la barca creata per Tabarro e l’albero della scenografia di Suor Angelica e la distesa di corpi dipinti di grigio dei dannati del Gianni Schicchi.

Del Trittico sicuramente il più riuscito è Tabarro che infatti riscuote anche i maggiori applausi per le magnifiche voci, ma anche, immagino, per il risultato d’insieme dell’idea registica, luci, costumi e scene. Il vecchio Michele appare un ottimo Caronte che sbarca anime dannate. Funziona infatti vedere figuranti interpretare i dannati giunti all’inferno e trascinare su per una aspra salita massi come nel 7° canto fanno gli avari e prodighi, ritratti anche da Dorè nel compimento del vano supplizio. Come i dannati dell’inferno, di lì a poco appaiono marinai e scaricatori oppressi da analoghi tormenti perenni che non concedono che rari momenti di riposo e costringono a “rubare” minuti d’amore anche se, come canta il marinaio Luigi, anche in quella che dovrebbe essere l’ebrezza più divina, non viene mai meno il pensiero degli “spasimi e paure”.

Eppure Luigi e Giorgetta tentano di rubare il loro amore al legittimo marito della donna, Michele e per questo pagano con la morte il loro affronto alla regola a cui ognuno deve sottostare di “piegare il capo ed incurvar la schiena” rinunciando a ogni desiderio, così come sarà per le suore di clausura nel seguente quadro. Ma nel Tabarro, non c’è alcuna possibilità di una bella vita, nemmeno nell’aldilà, come sarà invece per le suore di clausura, secondo Angelica. Tutti quei lavoratori, come le loro consorti, sono già all’inferno, possono cercare, come Frugola, qualcosa perduto da altri dannati per un sollievo momentaneo, possono annegare nell’alcol le loro fatiche come Il Talpa, o sognare una vita migliore come Giorgetta, ma non si scampa realmente dal buio delle giornate, dall’eterno supplizio.

Suor Angelica dovrebbe essere ambientato in un monastero di clausura a fine ‘600. La protagonista è stata lì rinchiusa da sette anni dalla famiglia come castigo per aver messo al mondo un figlio. Il suo nascosto desiderio di avere notizie della sua famiglia viene esaudito dall’arrivo di una zia principessa che giunge su una lussuosa carrozza al convento solo per avere la sua firma su alcuni documenti per estrometterla da un eredità. Angelica apprende dall’ospite che il suo bambino è moro di malattia due anni prima. Rimasta sola pensa di togliersi la vita bevendo un veleno. Essendo il suicidio peccato mortale chiede grazia alla Madonna. A questo punto, secondo copione, dovrebbe apparire la Madonna spingendo verso Angelica morente un bimbo e così la donna dovrebbe spirare tra gli angeli e ricongiunta al suo piccolo.

Nella regia bolognese tutto è ambientato in un giardino del convento, rimane parte della scenografia precedente, cambiano le immagini proiettate che diventano di una spiaggia rocciosa che rivela lacerti di un antico porticato e, sulla destra, c’è un grande albero scenografato sotto il quale si ricreano le suore dopo il coro. L’ambientazione all’aperto non rende l’idea che le suore nella clausura non vedono mai la luce del sole se non quella che filtra tre giorni l’anno da una particolare finestra in maggio. Rispetto alla fosca atmosfera del Tabarro, qui i colori sono più chiari, un bianco che tende al grigio chiaro e la luce è fredda, la luce calda si ha solo un istante a dare l’idea della brevità della gioia per quelle donne rinchiuse. E’ il finale a discostarsi maggiormente da quanto è previsto dal libretto di Giovacchino Forzano. Vediamo sfolgorare una luce divina, ma non vediamo la Madonna e nemmeno un bambino e Angelica sembra uscire da dentro l’albero andando, per grazia divina, verso la luce. Qui il riferimento è ancora l’inferno dantesco. Nel XIII canto dell’Inferno Dante rappresenta coloro che in vita furono violenti verso se stessi trasformati in alberi e condannati, nel 7° cerchio, ad essere divorati dalle arpie che si cibano delle loro foglie. Angelica dunque qui è ritratta come Pier Delle Vigne nell’illustrazione di Dorè ove Dante è circondato da anime imprigionate in alberi che le arpie attendono di divorare. Angelica intendiamo che venga dunque assunta in cielo, in paradiso e ci attenderemmo un ambientazione luminosa e paradisiaca per l’ultima parte del Trittico e invece all’apertura di sipario del Gianni Schicchi ci pare d’essere ripiombati all’inferno. Troviamo infatti un letto con candide lenzuola al centro di una catasta di anime dannate nude che sembrano state immerse nella creta, tutte di un grigio scuro come i dannati calpestati da Robin Williams nel fil sopra citato. Un paesaggio desolante, cupo, senza speranza. Eppure in questa scenografia di morte assistiamo a un atto unico di grande umorismo, macabro, ma pur sempre umorismo. Troviamo un gruppo di persone alla veglia per il defunto Buoso Donati, anche qui torna in mente un personaggio dantesco, Forese Donati che è ritratto tra i golosi, nel purgatorio al canto XXIII oppresso da una straordinaria magrezza come contrappasso per l’eccessiva golosità. Qui il regista ha ritratto il medico, il notaio e altri personaggi di contorno, come scheletri secchi, secchi, la cui magrezza rende difficoltoso il parlare (cantare) e la deambulazione. Geniale è poi la rappresentazione dei parenti della buon anima, molto serpenti, come quelli del famoso film di Risi, preoccupati, in questo caso, solo per la loro eredità che rischia di sfumare a beneficio dei frati di un convento. Molto ironiche le immagini del testo di Forzano che ritraggono i frati che ingrassano a spese dei poveri Donato. Bravissimi/e tutti gli e le interpreti che riescono a dare l’idea dell’ingordigia dei parenti, rappresentati tutti come grassocci, famelici e ammantati d’oro, tra loro citiamo Manuela Custer nei panni di Zita, Vittoriana De Amicis come Nella e Laura Cherici interprete de La Ciesca.

Se i parenti, come gli zanni della commedia dell’arte, incarnano la parte comica della pièce, anche qui quasi come contrappasso essendo in realtà i personaggi più abbienti, Lauretta, figlia di Schicchi, rappresenta una fanciulla povera, senza dote e futura sposa senza alcun patrimonio perchè Rinuccio, come gli altri, è stato diseredato. Schicchi e la figlia sono parte della “Gente nuova” venuta dal contado a Firenze con cui i Donato non intendono imparentarsi. Tuttavia Lauretta si presenta con un vestito bianco sontuoso e, per come è organizzata la rappresentazione, funge da contraltare degli zanni, ovvero come personaggio serio e non in maschera. Schicchi (interpretato dal già ricordato ed efficace De Candia) è un vero servo imbroglione come gli zanni dell’antica commedia dell’arte e, per sistemare la figlia con Rinuccio Donato e pure se stesso, compie un grande imbroglio riuscendo infine a scacciare di casa loro i terribili Donato assegnandosi l’eredità. A Lauretta tocca la parte seriosa dell’atto unico con la celeberrima aria “O mio babbino caro” che è stata ben interpretata dalla delicata Darija Augustan la quale ha ben usato la mezza voce creando carezzevoli momenti di dolcezza. In contrasto con quel momento soave, l’atmosfera generale di morte, la cattiveria e ingordigia dei Donato, la magrezza da internati degli altri personaggi che rimandavano a un mondo fatto di soprusi, di violenza e malefatte.

L’elemento paradisiaco qui sta solo nella gioia dei due innamorati Lauretta e Rinuccio che, ottenuta l’eredità, possono sposarsi serenamente anche se ciò non cancella l’inferno di cadaveri dalla scena, nè le altre malvagità del mondo se pure la comicità della situazione riesce ad attenuare la cupezza della rappresentazione.

Complessivamente la serata, per quanto lunga (3 ore di musica più una tra i due intervalli), è stata piacevole: Tabarro e Gianni Schicchi valgono davvero la pena di essere ascoltati, la direzione d’orchestra è stata ottima, tanti i momenti musicali che si gustano e emozionano, l’interpretazione registica ha aggiunto suggestioni interessanti. Quanto a Suor Angelica, non la annovererei tra le opere che mi piacerebbe riascoltare, anche se sono contenta di averla conosciuta.

E’ possibile acquistare ancora biglietti per il Trittico con prezzi da 20 a 120 euro in vendita online tramite Vivaticket e presso la biglietteria del Teatro Comunale, aperta dal martedì al venerdì dalle 12 alle 18, il sabato dalle 11 alle 15 (Largo Respighi, 1); nei giorni di spettacolo al Comunale Nouveau (Piazza della Costituzione, 4/a) da un’ora prima e fino a 15 minuti dopo l’inizio. Le repliche previste sono il 9, 11 e 12 luglio.