Si apre l’edizione 2017 di Vie Festival che coinvolge i teatri ERT di Bologna, Modena, Carpi e Vignola fino al 22 ottobre. L’Arena del Sole di Bologna ospita per l’inaugurazione uno spettacolo ispirato al testo biblico del Libro di Giobbe in una produzione di Emilia Romagna Teatro Fondazione.

Vie Festival: il programma dell’edizione 2017

Ottobre è un mese teatralmente emozionante, si riaprono le stagioni dei teatri cittadini e poi c’è un Festival che da tredici anni è diventato, prima solo per i modenesi, poi anche per i Bolognesi, un’appuntamento atteso per vedere produzioni di teatro contemporaneo di respiro internazionale, fuori dagli schemi.

Quest’anno la curiosità nei confronti delle scelte della nuova direzione ERT è ancora più pungente e l’Arena è davvero gremita di pubblico, non solo di addetti ai lavori, ma di tanti cittadini e cittadine tra i quali anche diverse scolaresche.

Le aspettative sono sempre molto alte quando ci si siede in platea, si cominciano a leggere le schede di presentazione, le interviste agli autori,  la mente comincia ad attivare connessioni, a prefigurare la situazione scenica. Quando tuttavia la brochure patinata ricevuta all’ingresso risulta più interessante ed intrigante dello spettacolo a cui si assiste quando le luci si abbassano, vuole dire che qualcosa probabilmente non ha funzionato nel passaggio tra l’ideazione ed l’elaborazione filosofica del tema trattato,  la stesura vera e propria della drammaturgia e il processo di messa in scena.

Personalmente ho trovato promettente  sulla carta l’idea di usare una partita di tennis come metafora delle sfide del”uomo con qualcosa oltre la rete, che puà essere inteso come incontro/scontro con l’altro da sé o con sé stesso, con il senso del proprio esistere.

Nella realtà scenica ho trovato tutta la lunga scena iniziale della partita di tennis terribilmente noiosa, se pure teatralmente ben risolta da un punto di vista strettamente tecnico. Poco si coglie dell’emersione di un trauma precedente, a causa dalla pesante sconfitta sportiva del protagonista, fino a metà spettacolo, durante la cena chiarificatrice.

Tutto lo spettacolo risulta lento, taluni dialoghi sono di una sconcertante banalità, sicuramente degni della mediocrità del quotidiano, ma incapaci di tradurre con intensità i dilemmi e le riflessioni che pure gli autori si sono posti nel proprio travaglio gestatorio, così ben espressi in quelle paginette consegnate dalle maschere.

Ovviamente il teatro non può essere un trattato filosofico, ma la tensione interiore comunicata dalle parole di Aldrovandi e Babina fuori scena, non è stata pienamente trasposta nell’azione scenica e arriva solo in poche sparute battute davvero pregnanti, pronunciate dagli attori.

Più che l’azone scenica, per buona parte del tempo, cattura l’attenzione la scenografia, in particolare il fondale blu con i quattro buchi, o cerchi che richiamano un luogo sportivo, ma anche degli oblò da cui guardare il mondo da una diversa prospettiva attraversando dei confini tra reale e virtuale. Liminale rispetto quel confine c’è poi uno schermo sul quale vengono proiettate immagini di un videogioco in cui il personaggio che lo agisce ha il volto dell’attore Leonardo Capuano, colui che interpreta il campione sportivo a fine carriera, il Signor G, sconfitto, umiliato sul palco- campo, dal giovane A.

Crea un certo interesse l’ambivalenza dei piani di realtà. Ad un certo punto ci chiediamo se la realtà sia quella che vediamo sul palco agita dagli attori, o se piuttosto essi siano personaggi di un immenso videogioco, nient’altro che pedine mosse da giocatori altri, degli dei forse, non necessariamente dall’unico Dio biblico, ma comunque entità padrone del gioco delle vite umane, sulle quali scommettono parteggiando per uno o l’altro ignaro essere vivente.

Sono dunque il signor G  e la sua famiglia, il signor  A e la giornalista ad essere reali? Sono loro che giocano delle partite ad una consolle proiettando nella realtà virtuale quello che sognano e desiderano, insieme a paure e angosce, oppure essi sono giocati da altri esseri non umani, non dotati di empatia che non si crucciano quando il dolore dell’esistenza è così forte da preferire una morte autoinflitta per acquietarlo?

La parte più coinvolgente, precisamente meno soporifera, dello spettacolo è quella finale: l’emergere prepotente del dolore fisico (le piaghe) e morale (le sconfitte sportive e familiari) del signor G; la conquista della pensante verità di non essere nemmeno stato capace di trasformre in arte, in qualcosa di estetico, il proprio infinito dolore di vivere, schiacciano a tal punto il protagonista da rendere preferibile la morte.

A commentare la scelta del personaggio sono alla fine gli dei, i giocatori non dichiarati della partita. Sopra tutto regna l’infinito spazio siderale, proiettato sul maxi schermo, rispetto al quale tutti, esseri umani, avatar, sogni, non sono altro che pulviscolo tra le stelle.