Ora che c’è l’annuncio ufficiale della chiusura a fine anno da parte patron Oscar Farinetti è assai più facile dire che era prevedibile, ma davvero qualcuno (pochi e inascoltati) aveva detto che Fico Eataly World, il parco divertimento sul cibo alle porte di Bologna, sarebbe stato un fallimento.
Ciononostante, il modello Fico è stato esportato dalla politica, in particolare dal centrosinistra di matrice renziana, che con quella filosofia – se non ideologia – ha impresso profondi mutamenti all’economia di intere città, ai loro modelli di socialità e alla visione del cibo.
Col senno di poi si potrebbe dire che il modello Fico applicato alla politica rappresenti un tassello del composito mosaico che è valso al Pd la definizione di “sinistra ztl”.

La narrazione attorno al cibo: l’idea di Fico

L’idea di Fico (Fabbrica Italiana Contadina) nasce sulla scia dell’Expo 2015 di Milano. Se l’evento nel capoluogo lombardo aveva come claim “Nutrire il pianeta”, qualcuno ha fiutato che il tema dell’alimentazione poteva essere utilizzato per creare o incrementare nuovi business.
Nello specifico quel qualcuno si chiama Oscar Farinetti, patron di Eataly, una catena di negozi di generi alimentari che ha puntato sulla valorizzazione economica del cibo, o sarebbe meglio dire del “food” (ma questo lo vedremo dopo), sfruttando il cliché del made in Italy come sinonimo di eccellenza.

La grande visibilità che ebbe Farinetti in quegli anni andò di pari passo con l’ascesa di Matteo Renzi a segretario del Pd prima e a presidente del Consiglio poco dopo. L’amicizia tra i due non era una mera questione personale. Farinetti per Renzi rappresentava un modello impenditoriale e Renzi per Farinetti un modo per scardinare l’ortodossia economica che, per quanto ormai da tempo disattesa, resisteva concettualmente in ambienti di sinistra.
Non è un caso che, in modo piuttosto sconvolgente per i vecchi militanti non accortisi che il Pci era sepolto da tempo, Farinetti veniva invitato alle feste dell’Unità per dire che se il Parmigiano esportava più della mozzarella di bufala era perché i produttori di quest’ultima non sapevano narrare bene il loro prodotto. In altre parole, nei noiosi dibattiti delle feste di partito c’era chi portava un elemento nuovo elevato a concetto politico: il marketing.
Nel merito della questione è sempre utile leggersi il libro di Wolf Bukowski “La danza delle mozzarelle” (Edizioni Alegre) che spiega nel dettaglio questa operazione.

I discorsi da yuppie di Farinetti facevano presa grazie a un mix di confusione e retorica propriamente renziani. La storia del padre partigiano dell’imprenditore era un ottimo specchietto per le allodole per i nostalgici dell’elettorato post-comunista, mentre i germi del business padronale venivano seminati dalla politica con il Jobs Act, la riforma che cancellava l’articolo 18 e lo sostituiva con fantomatiche tutele crescenti che nessuno ha mai visto.
Se l’austerità sovietica era un lontano ricordo, doveva essere spazzata via anche la moderazione socialdemocratica per aprirsi da “sinistra” ai meccanismi del mercato.

La sponda politica: il Pd renziano e il “guru” Farinetti

Farinetti, però, da imprenditore non si è accollato tutta l’operazione attorno a Fico. Per fare breccia nella “rossa” Bologna si è avvalso del piede di porco di Andrea Segrè, preside della Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna e inventore del Last Minute Market, il sistema di recupero della merce invenduta per risparmiare sugli sprechi e contemporaneamente fare beneficenza.
Sul lato politico, invece, l’operazione ha trovato una sponda nel sindaco bolognese dell’epoca, Virginio Merola, renziano della seconda ora, ma forse ancor di più nella sua giovane giunta, nella quale sedeva quello che ora è il primo cittadino di Bologna, Matteo Lepore.
Il Comune ha messo a disposizione un’area del Caab, il centro agroalimentare di Bologna, Coop Adriatica, diventata poi Coop Alleanza, ha investito un po’ di denari insieme ad altri soggetti, ed ecco che è stata partorita l’idea di Fico, presentata al pubblico non come un’impresa economica, ma come un parco divertimenti dalla forte valenza educativa sulla cultura del cibo.

Bologna, in teoria, era lo scenario perfetto per un’operazione del genere perché la città già vantava una nomea a livello nazionale e internazionale (i famosi e inesistenti “spaghetti alla bolognese”) proprio legata al cibo.
Ad accelerare in questo senso nel 2014 venne messo in atto anche dalla Fondazione Innovazione Urbana un processo di marketing territoriale che portò al brand “Bologna City of Food”.
Il progetto, presentato in pompa magna alla stampa, doveva idealmente essere una prosecuzione di Expo 2015, ma i lavori per la realizzazione del parco costrinsero a posticipare l’apertura al novembre 2017.

In tutta la fase dei cantieri la città di Bologna si divise tra i curiosi ed entusiasti del nuovo progetto e gli scettici o contrari all’operazione. Tra questi ultimi vi fu chi sottolineava l’impatto che Fico avrebbe potuto avere sul piccolo commercio, ma anche l’insostenibilità che avrebbe contraddistinto un progetto del genere.
In effetti la collocazione di Fico in un’aerea periferica della città, anche piuttosto spoglia di servizi e bruttina a livello paesaggistico, poteva suggerire che non sarebbe stata meta di pellegrinaggi, né da parte dei residenti, né da parte dei turisti, i quali potevano usufruire di un centro storico assai più affascinante, che di lì a poco si sarebbe guadagnato anche il riconoscimento Unesco per i caratteristici portici.
I primi mesi dall’apertura di Fico smentirono parzialmente questa previsione. Secondo i dati della società, si raggiunse il milione e mezzo di visitatori e un utile di una ventina di milioni di euro. Dati comunque sotto le previsioni, che furono giustificati con la necessità di entrare a regime.
Gli esercizi successivi, invece, segnarono un vero e proprio flop, con conti in rosso di milioni di euro.

Eppure, entrando a Fico, la ragione di questa scarsa attrattività poteva essere compresa. Il centro era (ed è) per un terzo una sagra di paese con stand enogastronomici di diverse regioni, per un terzo un mini zoo con animali tenuti a scopo espositivo in spazi angusti, ma in ogni caso niente di diverso da ciò che si può trovare in qualunque fattoria didattica. Il restante terzo era rappresentato da spazi didattici con installazioni anche carine, ma niente di così eclatante da giustificare i prezzi non proprio popolari del biglietto, del parcheggio e del cibo da consumare o acquistare.
Una polemica politica scoppiò quando il M5S, all’epoca all’opposizione, pubblico i dati della linea di bus dedicata che l’Amministrazione, attraverso la società di trasporti Tper, finanziava per raggiungere Fico dal centro storico. La media dei viaggiatori sugli autoarticolati era di sei persone.
La pandemia assestò un duro colpo alla struttura, che chiuse i battenti per alcuni mesi, per poi riaprire con una formula nuova che assomigliava ad un accanimento. Per rientrare delle perdite, la nuova gestione mise un biglietto di ingresso al parco, mentre prima si pagava per usufruire di specifici servizi, rendendolo ancora meno accessibile e attrattivo.

In quegli anni il patron di Eataly rimase ai margini, evitando accuratamente di giocarsi la faccia con la creatura che aveva ideato. Nel frattempo Farinetti era caduto anche in diversi tranelli. Nel corso di una trasmissione televisiva, gli venne chiesto di assaggiare due diverse mortadelle, una proveniente dai negozi di Eataly e una del discount. Il compito del patron di Eataly era di dichiarare quale fosse la più buona e quindi di riconoscere il suo prodotto. Farinetti sbagliò, dichiarando che quella più buona era quella del discount, facendo crollare in un sol colpo tutta la retorica sull’eccellenza e la qualità, utilizzate nella narrazione di Eataly per valorizzare economicamente il cibo.
Sempre in quegli anni emersero anche proteste per le condizioni di lavoro nei punti vendita di Eataly e altri elementi che resero chiaro a chi voleva vederlo che al centro dell’impresa farinettiana non c’era l’amore per il cibo, ma la massimizzazione dei profitti.
Tuttavia le capacità imprenditoriali di Farinetti non vennero mai messe in discussione. Al contrario, col Pd renziano continuava ad essere un modello, che il partito applicò anche nell’amministrazione delle città.

Fico e la trasformazione del centro di Bologna

I processi di gentrificazione, spesso spacciati come riqualificazione e rigenerazione urbana, in quegli anni subirono un’accelerata, anche e soprattutto a Bologna.
La ricetta per l’economia cittadina prevedeva due ingredienti: turismo e cibo. Cibo per i turisti, ma anche turisti per i progetti che avevano a che fare col cibo, cioè il food di Fico e non solo.
Gli effetti del marketing territoriale e del City Branding sono misurabili coi numeri. Dai dati della Camera di Commercio di Bologna, infatti, prima del marchio “Bologna City of Food”; cioè nel 2013, emerge che le attività economiche del settore “alloggio e ristorazione” erano 6660. Nel 2021, ultimo anno disponibile e ancora nel pieno della pandemia, le attività del medesimo settore risultano salite a 7525, quasi mille imprese in più, pari all’8% di tutte le attività economiche presenti in città.

Quanto al turismo, sono i dati diffusi questa settimana sulla tassa di soggiorno incassata dal Comune di Bologna a parlare chiaro: nel primo semestre del 2023 si è raggiunta la cifra record di 6,4 milioni di euro, con la previsione che salgano a 12 milioni entro la fine dell’anno. Se si esclude la parentesi della pandemia, le statistiche del turismo in città hanno registrato un costante aumento dei flussi che, come in altre città italiane, ha rappresentato anche un problema per il mercato immobiliare a causa degli affitti brevi turistici.
Va da sé, quindi, che le quasi mille attività ristorative in più a Bologna in meno di un decennio sono servite in larga parte a sfamare il numero crescente di turisti o city users, arrivando per molti aspetti a snaturare le dinamiche sociali e di relazione in città.

Dopo aver lanciato l’idea di fare business col food, si può dire che paradossalmente Farinetti sia stato l’unico a non usufruirne, come testimonia il fallimento di Fico, ma la sua impronta ha avuto un profondo effetto politico e ideologico, contribuendo a cambiare il volto e il tessuto sociale del centro cittadino, sempre più a misura di persone facoltose, con disponibilità economica, e sempre meno laboratorio inclusivo e accogliente.