Il documentario di Stefano Liberti ed Enrico Parenti fa il punto sul complesso funzionamento dell’industria intensiva dell’allevamento. Il titolo, “Soyalism”, sottolinea la centralità che la produzione della soia ha assunto in questi anni per l’alimentazione dei suini dovuta alla crescente richiesta di carne. In un viaggio che collega Cina e Brasile, Mozambico e Nord Carolina, Soyalism indaga non solo i rapporti economici tra questi paesi, ma la fitta trama che collega un’economia capeggiata da grandi multinazionali (Monsanto, ADM, Cargill, Louis Dreyfus e Bunge) che controllano il mercato mondiale alle conseguenze che l’allevamento intensivo ha sul lavoro dei piccoli contadini e soprattutto a livello ambientale, di cui la deforestazione dell’Amazzonia è solo l’esempio più eclatante.

240 mila ettari di terreno in Brasile, in Amazzonia e nella zona del Mato Grosso, sono destinati alla monocoltura della soia, di cui ’80% della produzione viene esportata in Cina per nutrire il bestiame. Solo in Iowa e nel Nord Carolina si concentra il maggior numero di allevamenti degli Stati Uniti, circa 8-10 milioni di capi. La soia, cioè, è diventato il motore del nuovo modello di produzione capitalistica: l’agro-business.

Le monocolture nel Mato Grosso

Attorno a questa produzione si disegna una nuova geopolitica che diventa il terreno del gioco-forza tra stati: l’acquisto di alcune corporation statunitensi da parte della Cina per intensificare la produzione di carne, l’approvazione dell’accordo di libero commercio tra alcuni paesi dell’America Latina e l’Europa, il Mercosur, con il plauso del presidente Jair Bolsonaro. La ratificazione di questo trattato da parte dei paesi coinvolti potrebbe avere come diretta conseguenza “un aumento di esportazioni sia di carne che di soia” secondo Liberti, e quindi “l’aumento della deforestazione”. Le immagini dell’Amazzonia in fiamme sono il ritratto di un sistema che piega le sorti dell’ambiente e del lavoro dei piccoli produttori, completamente tagliati dalla produzione agroalimentare, agli interessi economici delle grandi multinazionali. È il caso del progetto Pro-Savana in Mozambico, che prevedeva l’espropriazione di terre ai contadini a favore degli investitori brasiliani, che però è stato ritirato grazie alle lotte dal basso.

L’obiettivo del documentario, trasmesso anche all’Onu per fare pressioni sulle grandi potenze, è quello di portare il tema dell’allevamento intensivo al centro del dibattito pubblico. “È questo l’elemento disfunzionale che permette di produrre tanto in poco spazio a discapito dell’ambiente, della società e anche degli animali che diventano macchine” continua Stefano Liberti. Basti pensare che per produrre un chilo di carne, sono necessari 7kg di soia, “Se usassimo le terre arabili per la produzione di alimenti vegetali destinati all’alimentazione umana, ci sarebbe molta più terra a disposizione di quanto ce n’è adesso per l’utilizzo degli allevamenti intensivi. Questo tipo di transizione è complicata e dipenderà dalle congiunture politiche”. Di fronte all’insostenibilità di questo modo di produzione, Soyalism continuerà il lavoro di sensibilizzazione nelle sale. A Bologna, il documentario sarà trasmesso all’interno della rassegna Terra di Tutti Film Festival, sabato 12 ottobre al Cinema Lumière, alle ore 20.45.

Il documentario di Parenti e Liberti diventa in questo modo un “monito d’allarme” in un momento in cui da una parte all’altra del mondo manifestazioni ambientaliste denunciano l’impatto ambientale che la produzione capitalista ha quasi reso irreversibile. Dalla fotografia che emerge dal documentario, la sensazione è che bisogna cambiare l’intero sistema capitalista. Non basterà, dunque, un consumo critico, se non si sovverte il sistema di produzione su scala globale.

Alina Dambrosio

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