È difficile immaginare che i circa 7 cittadini e cittadine su 10 che in Emilia-Romagna ieri hanno disertato le urne trovino il tempo e la voglia di recarsi oggi. Teoricamente hanno tempo fino alle 15, ma è pur sempre lunedì, un giorno lavorativo ed è difficile credere che l’assenza di ieri sia dovuta ad impegni o a una gita fuori porta.
Quello che si va prefigurando per le elezioni regionali in Emilia-Romagna è lo stesso scenario della Liguria, che è andata al voto poche settimane prima, e sarà presumibilmente lo scenario dell’Umbria, che ha votato insieme alla nostra regione.

L’astensionismo maggioritario nelle elezioni regionali in Emilia-Romagna

Dopo il dato shock delle ore 12.00 ieri, quando ai seggi in Emilia-Romagna si era recato poco più dell’11% degli aventi diritto, alcuni quotidiani hanno riportato i dati storici di un ormai lontano passato, quando in fila ai seggi andata il 97% degli emiliano-romagnoli. Anche senza record, l’affluenza per molti decenni nei nostri territori è stata sopra il 70-80%.
Se si fosse guardato al passato prossimo e non a quello remoto, però, gli indicatori per capire quello che sta succedendo ci sarebbero stati tutti. Il primo mandato di Stefano Bonaccini, nel 2014, fu inaugurato dal record negativo di partecipazione al voto, appena il 37,7%.

Quanto accaduto nel 2020, invece, quando l’affluenza si risollevò al 67,7%, non è da imputare ai meriti della classi dirigente di viale Aldo Moro, ma alla mobilitazione che seppe attivare il movimento delle Sardine in risposta alla nazionalizzazione della competizione elettorale, in particolare da parte della Lega, del suo segretario Matteo Salvini e della candidata Lucia Borgonzoni.
In altre parole, il solito spauracchio della svolta reazionaria è stato un ultimo colpo d’orgoglio del popolo emiliano-romagnolo sempre più disorientato e disilluso.

Ogni tentativo estemporaneo di spiegare perché le persone non sentono più la chiamata alle urne è un puro esercizio retorico, che racconta più di chi lo fa che di ciò di cui si parla.
Che gli elettori vogliano dare un segnale a una classe politica che non ritengono all’altezza, che siano persuasi del fatto che il proprio voto non conta per cambiare l’establishment, che siano tranquilli nel pensare che la tradizione amministrativa nella nostra regione non rischia di essere interrotta, che siano disinteressati o, non da escludere completamente, che manco sapessero che si andava a votare, non è una cosa che si può stabilire a tavolino, servono studi sociologici fatti con tutti i crismi.

Quel che è certo è che una democrazia che viene legittimata da meno della metà degli aventi diritto è una democrazia svuotata. Assomiglia piuttosto ad un’oligarchia sostenuta dai pochi (sempre meno) fedelissimi di chi detiene il potere e dai pochi fedelissimi di coloro che possono realisticamente ambire a strapparlo.
Il resto, la maggioranza assoluta (che è un dogma del sistema democratico) non trova, ma a questo punto non cerca nemmeno rappresentanza.
Paradossalmente a subire di più questa situazione non è l’establishment perché, a differenza dell’istituto del referendum non è necessario il quorum per validare il voto. A patire questo restringimento della partecipazione sono le poche, sparute e isolate forze che vorrebbero esprimere un cambiamento.