Dopo le pressioni della stampa progressista e di una fetta dello stesso Partito Democratico statunitense, il presidente uscente Joe Biden ha ufficializzato il suo ritiro dalla corsa per le presidenziali Usa. Come da copione, Biden ha affermato che le ragioni non riguarderebbero il suo stato di salute, sempre più precaria a causa dell’età avanzata. Allo stesso tempo Biden ha fatto un endorsement per la sua vice, Kamala Harris, che molto probabilmente verrà incoronata come candidata alla Casa Bianca da tutto il partito.
Nel frattempo, soprattutto dopo il fallito attentato, la campagna elettorale di Donald Trump sta assumendo forme sempre più messianiche, con una preoccupante intersezione tra nazionalisti cristiani e movimenti complottisti.
Biden lascia, ma quante chances ha Kamala Harris?
«È stata una scelta molto sofferta». Così la politologa Nadia Urbinati commenta ai nostri microfoni la rinuncia di Biden nella corsa alla Casa Bianca. Il presidente uscente, in particolare, ha resistito fino all’ultimo perché convinto di poter battere Trump una seconda volta. «Un po’ come Prodi con Berlusconi», semplifica la politologa, secondo cui l’Amministrazione Biden è stata una delle migliori degli ultimi decenni: «Sul piano sociale ha lavorato sul tema della disoccupazione, dell’accesso alla salute e all’istruzione e ha anche investito molto sulle infrastrutture negli Stati Uniti, che erano arrugginite. Trump e il Covid avevano lasciato una situazione pietosa e Biden ha ricostruito in tal senso».
Quanto a Kamala Harris, Urbinati sottolinea che tutti la conoscono poco per la sua poca presenza pubblica durante la sua vice-presidenza. «Ha avuto alcune uscite infelici all’inizio del mandato – evidenzia la politologa – Tuttavia io non guarderei al passato, ma mi concentrerei su quello che verrà ora, quando tutte le competenze del partito lavoreranno alla costruzione della sua candidatura».
La nomination di Harris come candidata per le presidenziali Usa, infatti, non è ancora ufficiale. Ci saranno primarie lampo negli Stati e il nome di chi si batterà contro Trump verrà ufficializzato negli ultimi dieci giorni di agosto nella convention di Chicago.
Per Urbinati, però, c’è una fase nuova nel Partito Democratico e l’entusiasmo è palpabile. In particolare, nelle ultime ore sarebbero già arrivati numerosi endorsement per Harris da parte di associazioni di donne o di minoranze etniche e si sarebbero sbloccati anche i finanziamenti anche alla campagna elettorale democratica, restati bloccati perché alcuni finanziatori si mostravano scettici e aspettavano che Biden manifestasse la propria volontà.
ASCOLTA L’INTERVISTA A NADIA URBINATI:
La campagna messianica di Donald Trump, tra nazionalismo cristiano e complottismo
L’avversario dei democratici alle presidenziali Usa, Donald Trump, ha ovviamente commentato sprezzante e tronfio il forfait di Biden, sostenendo che sarà ancora più facile battere Kamala Harris.
Dopo aver vinto il dibattito televisivo con Biden e dopo il fallito attentato che lo ha ferito all’orecchio, Trump appare sempre più ringalluzzito e sicuro di tornare alla Casa Bianca. Ma ciò che è peggio è che la sua campagna elettorale sta assumendo sempre più toni messianici.
A mettere insieme i tasselli di questo puzzle è il giornalista Leonardo Bianchi nel suo articolo intitolato “La Chiesa di Trump: come il Partito Repubblicano è diventato un culto trumpiano”, pubblicato su Valigia Blu.
«I toni moderati o unitari promessi da Trump dopo il fallito attentato sono durati meno di un quarto d’ora», sottolinea Bianchi ai nostri microfoni. Nel discorso di giovedì scorso alla convention repubblicana, infatti, Trump ha cominciato leggendo un copione che aveva toni più pacati rispetto alle sue narrazioni, ma poco dopo è uscito dal tracciato ed è tornato ad attaccare duramente gli avversari e ricorrere ad espressioni violente, che sono sempre state la cifra del suo discorso.
«Ha parlato di deportazione di massa di migranti ed ha dato delle pazze a Kamala Harris e a Nancy Pelosi», osserva Bianchi.
Ciò che però è ancora più inquietante è che i toni utilizzati non solo da Trump, ma anche da buona parte dei delegati e della base elettorale del candidato repubblicano hanno sempre più riferimenti cristologici e messianici. Lo stesso fatto che Trump sia sopravvissuto all’attentato sarebbe un segno della volontà di Dio di far proseguire a Trump la campagna elettorale per elezioni che non vengono descritte come un normale appuntamento democratico, ma come una sorta di «secondo avvento» e «fine dei tempi».
Il giornalista sottolinea che non è la prima volta che questo accade negli Usa. Prima di Trump, l’appoggio della Chiesa evangelica a un candidato repubblicano se l’era aggiudicata Ronald Reagan. Ma con Trump e con la radicalizzazione degli evangelici negli ultimi decenni tutto assume toni più estremi.
«Nelle ultime elezioni l’84% degli evangelici bianchi ha votato per Trump, un vero plebiscito – osserva Bianchi – Tutto ciò nonostante Trump sia l’esatto opposto del buon cristiano, visto che non va a messa, ignora la Bibbia ed è stato sposato tre volte».
Il nazionalismo cristiano, inoltre, ha molti punti di contatto con le fantasie di complotto e movimenti come QAnon, che già Trump aveva intercettato. Ecco perché la corsa alla Casa Bianca del candidato repubblicano si carica di toni surriscaldati, che vedono l’appuntamento di novembre come una sfida del Bene contro il Male.
ASCOLTA L’INTERVISTA A LEONARDO BIANCHI: