Uno studio dell’Inmp rivela che il 32% dei migranti residenti soffre di disturbi psicologici. I servizi di accoglienza si concentrano sulla salute fisica, spauracchio per l’opinione pubblica, mentre mancano percorsi di sostegno a persone che soffrono di stress post-traumatico, ansia, depressione e somatizzazioni.
Secondo uno studio pubblicato dall’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti ed il contrasto delle malattie della povertà (Inmp) tra i migranti residenti il 32% soffre di cattiva salute mentale percepita. La ricerca non prende in considerazione gli irregolari, i transitanti e le persone appena salvate in mare. Ricerche simili, portate avanti nel Centro di prima accoglienza di Ragusa da parte di Medici Senza Frontiere, avevano rilevato situazioni di grave disagio.
Le psicopatologie più comuni sono la sindrome di stress post-traumatico, ansia, depressione e sindromi da somatizzazione. L’attenzione rivolta alla sola salute fisica del migrante tralascia completamente lo stato di salute psicologica. Inoltre la difficoltà di affiancare psicologi a persone abituate a trattare il malessere attraverso riti sciamanici, non permette di agire con efficacia.
L’attenzione verso la salute dei migranti rivolta prevalentemente alle condizioni fisiche risponde alla paura di contagi, aumentata a causa dell’ebola, ha spinto i servizi di accoglienza a concentrarsi su questi aspetti particolarmente temuti dall’opinione pubblica. La verità è che la maggior parte dei migranti arriva sano nel nostro paese e sono le condizioni ambientali in cui viene costretta a vivere che procurano malattie. Sono le violenze subite dagli scafisti in Libia e durante i viaggi in mare a lasciare ferite non visibili, ma estremamente gravi.
Le condizioni di detenzione nei Cie e nei centri di prima o seconda accoglienza aggravano i disturbi. Maria Concetta Mirisola, direttrice dell’Inmp, sostiene che i dati dimostrano chiaramente che “la prevalenza di disturbo da stress post traumatico aumenta fino al 60% in persone private della libertà personale nei Cie. Nel tempo i soggetti che hanno subito questo trattamento avranno più sofferenza psicopatologica e saranno meno integrati di quelli che sono stati accolti con buone pratiche”.
Secondo Claudia Lodesani, responsabile del servizio medico per la missione Italia di Medici Senza Frontiere l’accoglienza non adeguata può intralciare il percorso terapeutico di recupero della persone. I problema riguarda anche i centri di prima e seconda accoglienza. Tempi di attesa tra i 15 e i 24 mesi, la reclusione e la mancanza di certezze sul proprio futuro, diventano potenziali aggravanti per il disagio psichico. Diventa quindi importante migliorare le condizioni dei centri per favorire le guarigioni.
Per arrivare a tutto questo serve una volontà politica consapevole dei problemi dell’accoglienza. Progetti che non mirino esclusivamente all’emergenza, ma affrontino sul lungo periodo e in modo mirato il problema. Il sostegno psicologico deve infatti essere affrontato con un approccio multidisciplinare. Sono numerose le differenze culturali con cui gli psicologi devono entrare in contatto. Una diversa elaborazione del proprio mondo interiore e delle proprie emozioni rende inadeguato un percorso clinico standard. In molti casi, nei paesi d’origine il disagio, la malattia e il malessere vengono affrontati attraverso riti sciamanici radicati culturalmente.
La necessità principale è quella di trovare mediatori culturali che non forniscano un semplice servizio di traduzione, ma aiutino il migrante a far capire le differenze culturali dell’approccio medico occidentale. “Noi come Msf – spiega Lodesani – abbiamo fatto la scelta di avere mediatori culturali connazionali dei pazienti. Non bastano le traduzioni, servono delle mediazioni che spieghino il diverso punto di vista di medico e paziente. Questo può essere fatto solo da qualcuno che conosce almeno in parte entrambe le culture”.
Gabriele Amadori