Nella Palestina in subbuglio dopo la decisione di Donald Trump di spostare l’ambasciata e considerare unilateralmente Gerusalemme capitale di Israele, i giovani palestinesi sembrano avere una consapevolezza diversa sul sacrificare la propria vita contro l’occupazione e cercano nuove forme di resistenza. Il resoconto del giornalista Alessandro Di Rienzo dalla Palestina all’epoca della quarta Intifada.

Una delle parole chiave per descrivere la situazione in Palestina, dopo la decisione di Donald Trump di spostare l’ambasciata e considerare unilateralmente Gerusalemme capitale di Israele, è “sfiducia“. I palestinesi sono sfiduciati verso la comunità internazionale, in primis ovviamente gli Stati Uniti, e ricercano costantemente nuovi interlocutori internazionali.
È uno dei punti del resoconto che il giornalista Alessandro Di Rienzo, rientrato da poco dalla Palestina, ha fatto ai nostri microfoni.

Di Rienzo ha una conoscenza di lungo corso della situazione in quell’angolo di Medio Oriente e ha appurato un elemento di novità soprattutto nelle giovani generazioni palestinesi. “C’è una consapevolezza diversa da parte dei ragazzi palestinesi – osserva – Ho notato una messa in cantiere di tutta quanta l’estetica dell’Intifada. Sono ragazzi coscienti che il proprio sacrificio non ha più un’agibilità enorme nella coscienza pubblica internazionale e per questo cercano anche nuove forme di resistenza e di lotta, evitando di sacrificare inutilmente la propria esistenza”.

Dopo la mossa statunitense Hamas chiamò la quarta Intifada. La sua forma classica, con il lancio di pietre verso i blindati israeliani – racconta Di Rienzo – rimane a bassa soglia. Non c’è invece un’intifada vecchio stile e, secondo il giornalista, ciò non accadrà, proprio per il fatto che i giovani hanno maturato una consapevolezza diversa, che li porta anche a considerare che la soluzione dei due Stati sovrani non è più quella da seguire.

Un altro elemento che Di Rienzo sottolinea nel suo resoconto dalla Palestina è la sistematizzazione dell’occupazione e della repressione israeliana. “Prima i check point davano l’idea di essere strutture provvisorie – racconta – Ora sono vere e proprie infrastrutture”. Sulla stessa linea l’elenco di ong “sgradite” al governo israeliano, poiché vicine alla campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.

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