Il teatro Comunale di Bologna ha riaperto le porte al pubblico nella sala del Bibbiena con lo spettacolo della stagione di danza “Relative Calm” con le coreografie di Lucinda Childs e regia, luci e spazio scenico ideato da Robert Wilson. La serata si è aperta con un comunicato sindacale delle maestranze del teatro che esprimevano tutta la loro preoccupazione rispetto alla mancanza di certezze a tutt’oggi rispetto alla sede in cui per i prossimi quattro anni si svolgerà il loro lavoro mentre l’edificio di Largo Respighi sarà sottoposto a riqualificazione e ampliamento.

Prima che si apra il sipario, un macchinista del Teatro Comunale prende il microfono e, con l’emozione di chi non è abituato a stare davanti al pubblico, legge il comunicato sindacale approntato dai lavoratori e lavoratrici dell’Ente Lirico Sinfonico spiegando che l’annunciato trasferimento della stagione in corso, che doveva partire dal mese di luglio, ad altra sede, non è ancora avvenuto perchè il Comune non ha ancora individuato una sede alternativa in cui, per i prossimi quattro anni, possa essere portato avanti il loro lavoro.

In questo clima di incertezza, precarietà, preoccupazione, riprende la stagione di danza del teatro, a cui seguirà, a breve, anche la ripresa della stagione operistica. Il comunicato sottolineava come sia importante e positivo che gli edifici teatrali del Paese vengano sottoposti a restauro e ammodernamento, tanto quelli di un certo rilievo storico, che quelli più piccoli in cui viene comunque dato lavoro alle professionalità artistiche e tecniche italiane, tuttavia appare sconsiderato programmare lavori così importanti su un’edificio all’interno del quale lavorano centinaia di persone, senza avere prima individuato un luogo idoneo in cui dare continuità al loro operato e ospitare degnamente anche il pubblico di affezionati.

Cittadini e cittadine presenti hanno applaudito con convinzione il comunicato esprimendo tutta la loro solidarietà alle maestranze nella speranza che una soluzione venga trovata al più presto che non penalizzi troppo le abitudini del pubblico nè mortifichi le alte competenze dei dipendenti del teatro.

Lo spettacolo tanto atteso di Robert Wilson e Lucinda Childs che segue, delude il pubblico che immaginava di assistere non solo a uno spettacolare gioco di proiezioni e di luci, ma attendeva forse una parte coreografica maggiormente coinvolgente e appassionante.

La prima delle tre parti di cui “Relative calm” si componeva è stata dedicata alla coreografia di Lucinda Childs sulla musica intitolata “Rise” di Jon Gibson composta nel 1981 per fiati, tastiere, autoarpa, suoni ambientali, sassofono soprano e percussion. Lo spazio nero, illuminato principalmente da due file di luci bianche, a terra, una in procecio e una in fondo alla scena. Queste due righe orizzontali creavano giù uno spazio lineare entro il quale si sono disposti 8 danzatori dell’ MP3 Dance Project in costume bianco con pantaloni e casacca con una striscia verticale nera sulla schiena che ricordava quasi il tasto nero tra due tasti bianchi. Sulla parete di fondo le proiezioni creavano un’ulteriore spazio geometrico con una progressione di linee ora orizzontali, ora obblique, ora verticali in sequenze ipnotiche che suggerivano il passare del tempo, la sequenza di azioni e forse il ripetersi delle azioni nella nostra quotidianità. La linearità di questo spazio veniva rotta da una sfera che, entro un cavo, attraversava in diagonale il fronte del palco più volte ora dal’angolo superiore sinistro verso l’angolo inferiore destro, ora al contrario dal basso a destra verso l’angolo in alto a sinistra. La musica di Gibson infondeva un reale senso di calma e immensità grazie a dei suoni che sembravano di un carillon, ma nel registro grave. La ripetitività della musica, minimalista oserei dire, con lievi variazioni, si rispecchiava nel movimento limpido, aereo e leggero e al contempo preciso e implacabile del corpo di ballo. Sequenze di movimenti ripetuti con lievi ma continue variazioni eseguiti in coppie sistemate su due file una di fronte al’altra in modo tale che alcuni dessero sempre le spalle al pubblico e altri mostrassero invece il volto.

In alcuni momenti il dialogo tra i corpi veniva proposto in gruppi di quattro prevedendo la sospensione del movimento in altri danzatori, talora le sequenze venivano eseguite da tutti e otto i danzatori e danzatrici, ma con tempi diversi e lievi variazioni. Nel quadro nero diventava sorprendente il cambio di luce nel momento in cui veniva proiettato sul fondale un accecante bianco, in alcuni momenti, a segnare punti di svolta musicali e coreografici. Questo primo pezzo è stato sicuramente di grande impatto visivo, infondeva decisamente un senso di pace e serenità, la coreografia era d’impatto, il gioco realizzato con le proiezioni risultava interessante e a tratti ipnotico.

E’ seguito un intermezzo che ha visto in scena la stessa Coreografa Childs proporsi in un breve monologo tratto, come il testo del secondo intermezzo parlato, da scritti di Susan Sontag. Un discorso provocatorio proposto in una specie di abito- pigiama blu pronunciato mentre alle sue spalle veniva mandato in lup il movimento di un ghepardo. Lucinda, in inglese, si è rivolta al pubblico direttamente asserendo “danzo perchè sento e non perchè mi aspettano”.

Deludente è stata per molti la coreografia sulla musica di Igor Stravinskij “Pulcinella suite” del 1922, eseguita dall’orchestra del Teatro Comunale diretta da Tonino Battista. Il fondale in questa sequenza era rosso, le proiezioni prevedevano il comporsi di una figura che sembrava un occhio e che via via si complessificava con nuove linee curve. L’immobilità iniziale di tre danzatori seduti su tre piccoli praticabili, veniva rotta da movimenti lenti e diradati nel tempo. I costumi dei danzatori in parte rossi e in parte neri, l’unico punto bianco della scena corrispondeva al cranio rasato di una danzatrice posta al centro della scena. La coreografia alternava l’intervento di tre figure (1°, 3° e 5° quadro) con movimenti piccoli, lenti e prevalentemente presentati in posizione seduta, all’intervento di un gruppo di danzatori con sequenze di movimenti più dinamici con momenti di elevazione, di salto. Il gruppo dei tre danzoatori “solisti” per così dire, nell’evoluzione della coreografia ha esplorato la verticalità nel terzo quadro con elevazione della danzatrice da parte degli altri due danzatori e successivamente, nel 5° quadro ha lavorato sul movimento a terra per poi ritornare all’immobilità nella seduta sui tre praticabili. Per quanto variata la coreografia e supportata con un bel gioco di luci, le suggestive proiezioni e i costumi importanti di Tiziana Barbaranelli, questa seconda parte dello spetatcolo non emoziona. L’uditorio si agita, si sentono mugugni. Tutti si aspettavano qualcosa di più incisivo, che fosse memorabile, considerando i nomi in ditta della la coppia Wilson e Childs che li avevano convinti a comprare il biglietto dello spettacolo. L’antica e famosa collaborazione tra Wilson e Child per Einstein on the Beach prometteva uno spettacolo da ricordare. Alla fama dei due artisti va aggiunta l’imporanza del brano di Stravinskij scelto che faceva presagire un risultato significativo.

E’ seguito un secondo intermezzo con nuova apparizione della coreografa che sembrava voler affermare la bellezza e utilità dei terremoti, che tanto spaventano le persone e che tutti temono e odiano, perchè, afferma Childs servendosi delle parole di Sontag, i terremoti permettono di respirare, sovvertono un ordine altrimenti opprimente. E un terremoto è stato per tutti sicuramente la pandemia che ci ha travolti come la corsa di bufali impauriti. Le parole vengono pronunciate mentre sullo sfondi vediamo proprio delle mandrie di bufali che corrono e si sente il rumore di questa corsa folle. Lo spettacolo è stato immaginato in una prima fase nel 1981 e poi l’idea è stata ripresa durante il lock down, quel momento di calma relativa che tutti e tutte abbiamo visstuo in un mondo impazzito per il diffondersi del virus.

La calma, al limite della monotonia, ritorna con la terza e ultima parte dello spettacolo sulle note di John Adams “Light over water” del 1985. Una sinfonia per ottoni e sintonizzatori. I costumi tornano bianchi, le video proiezioni questa volta presentano dei pallini che ritmicamente riepiono lo spazio. La coreografia è eccessivamente ripetitiva e alla fine noiosa. Interessante invece il brano musicale in cui i fiati si legano a dei suoni di sintesi che rimandano a bordoni organistici con un emoionante finale.

Complessivamente lo spettacolo è stato interessante a livello visivo per la parte multimediale e le luci, meno successo ha avuto la parte coreografica che è risultata eccessivamente omogenea priva di cambi di ritmo, di sorprese. Forse l’eccesso di enfasi posta sui nomi in cartellone ha suscitato aspettative presto deluse.