A 5 anni dal referendum votato da 27 milioni di italiani per dire no alla privatizzazione dell’acqua, la volontà popolare resta disattesa. Anzi: il governo Renzi, col decreto Madia, punta a reintrodurre i profitti dei privati in bolletta.

Il 12 e 13 giugno 2011 erano una domenica e un lunedì, proprio come il 12 e 13 giugno 2016. Sono passati cinque anni da quando gli italiani furono chiamati alle urne per votare quattro quesiti referendari: due sulla gestione dei servizi ambientali – acqua in primis – uno sul nucleare e uno sul legittimo impedimento.
Quella tornata elettorale fu l’unica nella storia dei referendum abrogativi degli ultimi 21 anni a raggiungere il quorum. Alle urne si recarono 27 milioni di aventi diritto e le percentuali ottenute dai promotori della consultazione furono bulgare.

A 5 anni dalla vittoria dell’acqua pubblica, la volontà del popolo resta ad oggi inapplicata. Fin dalle settimane successive al voto, in realtà, si capì che c’era uno schieramento trasversale, composto da centrodestra e Pd, che avrebbe impedito l’attuazione della pronuncia referendaria.
Il primo tentativo fu lessicale. Il governo provò a cambiare la dicitura contenuta nel decreto Ronchi del governo Berlusconi “remunerazione del capitale“, ovvero i profitti dei privati sul servizio idrico, con “oneri finanziari“, che significa la stessa cosa, ma con parole diverse.

Sul tema intervenne anche la Corte Costituzionale, che richiamò al rispetto dell’esito referendario, ma le maggioranze parlamentari e i governi che si sono succeduti in questi anni hanno fatto orecchie da mercante.
I referendari dell’acqua pubblica continuarono la mobilitazione e il lavoro di controllo e denuncia. Diedero vita, come nel caso dell’Emilia Romagna, anche a campagne di autoriduzione delle bollette, togliendo da quanto dovuto alle società di gestione la parte relativa ai profitti dei privati, così come sancito dal voto. In alcuni casi hanno anche accompagnato le sparute Amministrazioni locali intenzionate a ripubblicizzare il servizio.

L’ostinazione della classe politica e la sua subalternità alla finanza e al mercato, però, hanno spinto nell’altra direzione, contribuendo in modo decisivo a delegittimare anche lo stesso strumento partecipativo del referendum.
È Napoli l’unica grande realtà italiana ad aver dato seguito a quanto deciso dagli italiani nelle urne, grazie alla trasformazione di Arin spa in soggetto di diritti pubblico.

Oggi, 5 anni dopo, anche il governo Renzi torna all’attacco dei beni comuni, in particolare dell’acqua pubblica. Lo strumento, questa volta, è il decreto Madia sui servizi pubblici locali che punta alla riduzione della gestione pubblica ai soli casi di stretta necessità e al rafforzamento del ruolo dei soggetti privati. Il decreto vieta la gestione pubblica per i servizi a rete, quindi acqua inclusa, e ripristina “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito” nella composizione della tariffa, nell’esatta dicitura che i cittadini avevano abrogato.

Come se non bastasse, lo scorso 20 aprile la Camera ha completamente stravolto la legge di iniziativa popolare sulla gestione pubblica dell’acqua, depositata con oltre 400mila firme nel 2007. Dal testo è stato eliminato ogni riferimento alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato e alla sua gestione partecipativa.

Al comitato Acqua Bene Comune, dunque, non resta che tornare alla mobilitazione. A questo scopo è stata lanciata una campagna che prevede la raccolta di firme a sostegno di una petizione popolare. In occasione della ricorrenza del referendum, lunedì scorso, il Forum italiano dei movimenti per l’Acqua ha realizzato un blitz presso la sede del Ministero, grazie al quale ha stato ottenuto un incontro con il capo di gabinetto e il responsabile segreteria tecnica, che non ha prodotto grandi risultati.