Le proteste all’outlet di Serravalle per l’apertura a Paqua ha riacceso il tema degli orari degli esercizi commerciali, liberalizzati dal governo Monti. La vita dei lavoratori è peggiorata, le maggiorazioni sono sparite, gli incassi e i posti di lavoro non sono aumentati. Eppure, ormai abituati, alcuni consumatori esigono di fare la spesa durante le feste. Marta Fana: “Sottratto il tempo libero dal lavoro, ma non si può scaricarlo su altri lavoratori”.

Le aperture festive dividono

È da poco passata la Pasqua, ma è facile prevedere che col 25 aprile e il 1° maggio alle porte le polemiche si ripresenteranno. Il tema è quello delle aperture degli esercizi commerciali nei giorni festivi, consentita dalla liberalizzazione del governo Monti. Una misura che, dati alla mano, non ha prodotto alcuno dei benefici ufficiali che si era promessa. I consumi, infatti, non sono aumentati nonostante le aperture domenicali o notturne. “Del resto – sottolinea l’economista Marta Fana – il rapporto Istat sulla povertà ci dice che i poveri sono in aumento”. 4,5 milioni quelli che vivono in condizioni di povertà assoluta in Italia.

Se è ormai certificato che gli acquisti non sono aumentati, ma si sono semplicemente spalmati su un giorno in più della settimana, altrettanto certo è che negozi e supermercati hanno aumentato le spese (riscaldamento, climatizzazione ed energia elettrica), aggravando ancora di più una situazione già difficile per la crisi economica.
Eppure, a più di cinque anni dalla liberalizzazione, sono pochi coloro che sono tornati sui propri passi, decidendo di non aprire più durante i festivi. Il motivo è presto detto: avendo abituato la clientela all’apertura festiva e in assenza di una programmazione e regolamentazione su base territoriale (come avveniva prima della legge Monti), tornare a chiudere significherebbe regalare clientela alla concorrenza.

Ma allora come fanno gli esercizi commerciali a rientrare nei costi? Ne sanno qualcosa i loro lavoratori, che negli ultimi cinque anni hanno visto peggiorare vertiginosamente le proprie condizioni di lavoro e di vita. Le maggiorazioni salariali, gli incentivi e le rotazioni previste nel lavoro domenicale, ad esempio, sono sparite proprio in virtù della liberalizzazione. Se prima poteva convenire al dipendente lavorare, ad esempio, la domenica, ora è fortemente penalizzante. C’è chi è addirittura costretto a pagare una baby sitter per tenere il figlio, che la domenica è a casa da scuola.
Senza considerare che il recupero infrasettimanale peggiora la qualità della vita, delle relazioni e degli affetti, aspetti non monetizzabili eppure altrettanto importanti.

I benefici sperati per l’occupazione, inoltre, non si sono realizzati. In un contesto economico come quello attuale, le aperture nei festivi non hanno prodotto assunzione di nuovi lavoratori, ma il carico e l’intensità del lavoro si sono riversati su quelli già assunti o, al limite, su una fetta di lavoratori super-precari, in appalto attraverso l’intermediazione di cooperative o agenzie interinali, che espongono la manodopera al ricatto e all’assenza di diritti basilari, come la malattia e le ferie.

Eppure, in seguito alla protesta dei lavoratori dell’outlet di Serravalle, il popolo dei social network si è fortemente diviso. C’è chi solidarizzava con i lavoratori, comprendendo le ragioni della loro protesta, ma molti si sono scatenati in feroci accuse di pigrizia, rivendicando la possibilità di fare la spesa durante i giorni festivi come un diritto ormai acquisito, addirittura sintomo di modernità.
“In realtà l’Italia è l’unico Paese europeo che consente un’apertura totale – osserva Fana – In Francia, ad esempio, non esiste il diritto all’apertura di 7 giorni su 7 e 24 ore al giorno”.
Sembrerà quindi sorprendente, ma i cittadini francesi e quelli di molti altri Paesi riescono a fare la spesa anche se le aperture dei negozi sono più contenute.

La prospettiva da cui bisogna affrontare la questione, per Fana, è quella che riguarda l’organizzazione generale della società e il modello di consumo e di sviluppo che si è instaurato.
“Se non abbiamo tempo per fare la spesa durante la settimana – osserva l’economista – il problema non è del negozio che resta chiuso la domenica, ma è che noi non abbiamo tempo di riproduzione sociale, tempi di vita liberi dal lavoro e da altri impegni produttivi”.

Per Fana, dunque, bisogna capire dove sta la responsabilità delle cose e non scaricare gli effetti su parti ancora più deboli. “Bisogna rifiutare l’individualizzazione delle vite e del lavoro, non può essere la logica del ‘mors tua vita mea’ a fornire una soluzione – osserva Fana – Per contrastare questa guerra fra lavoratori, che è una guerra fra lavoratori poveri perché i ricchi non hanno bisogno di fare la spesa la domenica, è necessaria una nuova alfabetizzazione politica delle condizioni sociali dei lavoratori e agire in una prospettiva unica”.