Le colpe dei padri, generatori d’odio, perpetuatori di inutili violenze sui propri figli, sono poste come elemento centrale dell’interpretazione della tragedia dei due amanti veronesi in scena fino al 13 maggio a Bologna.

L’odio e la vendetta, insieme all’onore e al dovere, per la regista Silvia Paoli caratterizzano il libretto musicato da Bellini ne I Capuleti e i Montecchi più che l’amore. Da questa considerazione è generata la sua scelta di ambientare la vicenda in un biliardo, luogo di ritrovo della famiglia Capuleti, o potremo dire dei loro affiliati, nel mezzo di una guerra tra ‘ndrine rivali. Più che a Verona potremmo essere in una città del sud, il periodo scelto per la rappresentazione scenica è quello degli anni ’70, decennio nel quale le mafie hanno avuto il grilletto facile e i morti ammazzati per le strade erano all’ordine del giorno. Nella seconda scena assistiamo a veri e propri rituali mafiosi durante i quali i fedelissimi del capofamiglia Capellio, Tebaldo in testa, giurano, armi in mano, di vendicare le offese recate ai Capuleti dai Montecchi.

Capellio non è disposto a parlare di pace con la famiglia rivale, dimenticado il passato. Accecato dall’odio non avrà pace finchè Romeo, l’uccisore di suo figlio, non sarà sottoterra e i suoi giurano, baciando l’anello del clan, di portare avanti la guerra per ottenere vendetta.

Giulietta, per lo stesso meccanismo per il quale tanti figli di mafiosi faticano a staccarsi dalla famiglia, anche quando non condividono più i loro “valori”, non accetta di fuggire con Romeo quando ne ha la possibilità, perchè imprigionata nella rete del dovere e del rispetto del genitore.

L’interpretazione registica di Paoli non fa affatto violenza alla musica di Bellini, convince complessivamente e anche diverte per l’ironia che è posta nel gesto reiterato dello sfoderare le pistole che volutamente richiama alla mente degli spettatori tutta una serie di immagini che vanno dalle reali immagini di sparatorie tra clan rivali, a tutte le scene di film e scenneggiati sulle mafie, passando per le versioni cinematografiche della storia di Giulietta e Romeo che hanno già ripensato la vicenda in chiave guerra tra bande ( si pensi a West side Story con la musica di Bernstein e a Giulietta + Romeo di William Shakerspeare, film pulp del 1996 di Baz Luhrmann).

Dell’esecuzione orchestrale diretta da Federico Santi sorprende la grazia e la leggerezza fin dalla sinfonia iniziale aperta dal rullo di timpani e dagli squilli militari, il tono è gaio più che tragico, per quanto invece visivamente, nella dimensione scenica, i presagi di morte siano subito presentati dai mimi che in flashback rappresentano la morte del figlio di Capellio per mano dell’allora ragazzino Romeo.

Il coro del Comunale diretto dal Maestro Faidutti risulta sempre misurato, scenicamente e vocalmente espressivo, efficace nel canto in piano della scena prima di “aggiorna appena” mentre invadono lo spazio del biliardo chi iniziando il gioco, chi ordinando da bere e chi leggendo il giornale. Egualmente pregevole sarà ogni intervento coristico della scena seconda che intervalla la cavatina di Tebaldo in un crescendo di intensità emotiva fino all’incitamento conclusivo alla guerra.

Il ruolo del coro in quest’ opera belliniana è rilevante perchè quasi sempre presente in alternanza ai numeri, ai pezzi chiusi dei solisti. Nella parte seconda ad esempio il coro apre la sezione e ne commenta ogni blocco d’azione per poi unirsi ai solisti nel concertato ch’era cominciato, momento di grande emozione, con le sole voci soliste a cappella.

Per quanto concerne le voci soliste è doveroso segnalare che l’allestimento vede in scena giovani artisti provenienti dalle Scuole dell’Opera del Comunale di Bologna e dell’Accademia di Formazione Opera e Studio di Tenerife ove è andata in scena lo scorso ottobre in prima assoluta all’interno del progetto Opera Next.

Sul palco bolognese si alternano nelle recite Lara Lagni e Nina Solodovnikova nel ruolo di GiuliettaAurora Faggioli e Christina Campsall nei panni di Romeo en travesti, Francesco Castoro e Guillen Munguia come Tebaldo, Alberto Camón e Vincenzo Santoro sono Capellio e ancora Nicolò Donini e Diego Savini interpretano Lorenzo.

Personalmente ho aver assistito alla seconda rappresentazione con il secondo cast allestito dalla produzione applauditissimo dal pubblico quasi al termine di ogni pezzo chiuso.

Christina Campsall è uno splendido Romeo, con una voce fluida, carezzevole sia nei picchi acuti che nelle note più gravi che sottolineano la drammaticità delle parole del giovane amante. Se al tempo di Bellini si preferiva affidare a una donna il ruolo del giovane Romeo ritenendo le donne più capaci di esprimere sentimenti di dolcezza a amore, oggi possiamo apprezzare la presenza femminile in quel ruolo forse per i motivi opposti, ovvero perchè l’interprete dimostra come una donna possa impersonare le caratteristiche tradizionalmente attribuite agli uomini quali il corggio, la determinazione, la forza, l’audacia.

Christina è stata capace di essere un tenero Romeo, dolce nei pochi baci rubati a Giulietta prima dell consumarsi dell tragedia ed anche un Romeo agguerrito, pronto a tutto per il suo amore, capace di sfidare, in territorio nemico, Tebaldo. Vero è che registicamente il duello Romeo -Tebaldo è stato orchestato all’acqua di rose, poteva essere molto più serrato, dinamico e belluino, mentre termina quasi in un abbraccio tra i due che hanno perduto, con la morte di Giulietta, il motivo del contendere.

La tenerezza sembra emergere anche nel rivale Tebaldo fin dalla sua cavatina di presentazione. Nell’atteggiamento fisico Guillén Munguia appare subito un bambinone che si commuove pensando a Giulietta anche quando dovrebbe dimostrare il coraggio della vendetta nel nome dei Capuleti e per questo preso in giro dal coro degli astanti. Vocalmente Munguia si dimostra intenso e brillante, pur nel poco spazio concessogli dalla distribuzione delle parti fatta da Bellini nel 1830, quando aveva a disposizione a suo dire un Tenore mediocre a cui cerca di affidare una parte d’effetto, ma non estesa.

  La risolutezza e l’amicizia sono invece le qualità di Lorenzo interpretato da Diego Savino che veste i panni del barista testimone di tutti i delitti compiuti dalle due parti che hanno visto sacrificati bambini e giovinetti per colpa dei padri che li hanno armati d’odio. Savino ha sostenuto la sua parte con piglio deciso, con padronanza scenica notevole. E’ apparso convincente nel suo ruolo e vocalmente pulito, se pure non mostra una voce estremamente potente, forse perchè è un bartono, mentre la parte è scritta per un basso.

Aiutata da Lorenzo, Giulietta, la moscovita Nina Solodovnikovaritrova lo slancio vitale dopo la disperazione narrata nella scena quarta della parte prima con il dolente recitativo “Eccomi in lieta veste” e la successiva cavatina introdotta dalla delicatezza del suono dell’arpa “Oh! quante volte oh quante volte”. Struggente e delicato il suo canto solo e davvero seducente poi il cantabile “Ah! Crudel, d’onor ragioni” in cui le due voci si fondono narrando l’appartenenza dell’uno all’altro prima che la fanfara festiva, al loro orecchio funesta, li riporti alla realtà delle imminenti nozze forzate di Giulietta col rivale.

Scenicamente ben organizzata è l’allegra confusione per i preparativi delle nozze con il coro e i mimi che invadono la scena, le signore che s’ingozzano di pasticcini e poi vestono la bella sposina, mentre gli uomini recano doni. Nella gaiezza generale, Giulietta, rivolta al pubblico, lancia un significativo grido muto che ha la forza di un tornado capace di far pensare al dolore di tutti i matrimoni forzati che gravano sull’animo delle donne di tutti i tempi. Meraviglioso il già citato concertato “Soccorso sostegno” a cappella sostenuto poi dall’orchestra nella stretta finale in cui da un lato ci sono i due amanti e dall’altro Capellio, Tebaldo e il Coro mossi dal furore verso i Montecchi e il loro capo Romeo.

Convincono pienamete le interpretazioni di Solodovnikova e di Campsall lungo tutta l’opera. Il finale è tutto per loro, dopo la commovente processione funebre del coro. Il finale belliniano in passato è stato  contestato, tanto che alcuni cantanti ottocenteschi avevano preferito ad esso il finale dell’Opera del Vaccaj perchè più tradizionale, con pezzi in sé chiusi che davano ampio spazio alla dimostrazione di bravura delle due donne.

In Bellini, che pure usò quello del Vaccaj come modello, invece tutto è conciso, non c’è una scrittura in funzione dell’esibizione vocale, ma una concentrazione del sentimento espresso da linee vocali semplici, su strutture regolari chiuse da cadenze. Il canto poggia su un accompagnamento strumentale scarno costituito da formule di accompgnamento che indirizzano l’attenzione tutta sulle voci. Questo finale belliniano è considerato un vertice dell’arte del Maestro nonostante la grande fretta in cui compose l’intera opera (poco più di un mese per la stagione lirica del carnevale veneziano del 1830).

Prima è Romeo-Campsall a piangere con il recitativo “ecco la tomba” e poi con l’aria “Sorgi mio ben” di dilogo con l’amata creduta morta. Appena Romeo beve il veleno cantando “Deh, tu bell’anima”, si risveglia Giulietta e spera nella salvezza, per un istante, nell’intenso cantabile “Vivi, ah! Viivi“,  comprende poi l’imminenza della fine di Romeo, ignaro del suo inganno e quindi della sua propria fine che avviene per coplo di pistola (considerata l’ambientazione prescelta dalla regia), piuttosto che col pugnale.

Compostezza e sobrietà sono le cifre dell’orchestra e del coro di questo allestimento. La scenografia risulta appropriata, efficace fino al finale, quando la parete di fondo del bar- biliardo si solleva, lasciando però le pareti laterali del locale e il bancone del bar soprattutto (immagino per difficoltà tecniche di smongaggio), la qual cosa però disturba, sarebbe stato opportuno concentrare piuttosto lo spazio scenico sulla tomba escludendo dalla vista gli altri elementi scenici con fondali o altre soluzioni.

Poco convincente è anche il “riciclo” del soffitto del locale fatto di luci, come fondale alla tomba che tra l’altro lascia visibile il coro dietro ad esso togliendo l’intimità agli ultimi respiri dei due innamorati.

Per fortuna è il canto e la musica a trionfare nel finale facendo passare in second’ordine la soluzione scenografica poco felice.

Complessivamente il cast piace, emoziona e porta all’applauso, la musica belliniana incanta per la leggerezza, la dolcezza degli ariosi, per l’atmosfera che crea di sospensione temporale in cui è facile concentrarsi solo su quanto avviene in scena facendosi trascinare dal racconto musicale e dall’energia dei giovani talenti in scena all’alba della loro agognata carriera teatrale.