Il 26 aprile del 1986 l’incidente nucleare di Chernobyl. Oggi non esiste ancora un numero certo dei morti dovuti alle radiazioni, mentre 150mila chilometri quadrati sono ancora contaminati e 10mila chilometri quadrati non sono utilizzabili per l’attività economica. Latte e carne presentano ancora livelli di cesio-137 oltre il limite.

Sono passati esattamente 30 anni da quel 26 aprile 1986, giorno della catastrofe nucleare più grave della storia. Il reattore numero 4 della centrale di Cernobyl, al nord dell’Ucraina, esplose. Una nube radioattiva si diresse verso la Bielorussia, ma le conseguenze ci furono anche per i cittadini europei, costretti a modificare le proprie abitudini a causa del rischio contaminazione.
Oggi, a 30 anni dall’incidente, molto del materiale radioattivo non è mai stato rimosso e le radiazioni, che continuano a disperdersi nell’ambiente circostante, uccidono ancora.

LE VITTIME DELLA CATASTROFE. Nonostante siano passati 30 anni dall’incidente, il numero esatto delle morti ancora non si conosce. Nel 2003 il Chernobyl Forum, composto da Fao, Onu, Oms, Unep, Undp e altre agenzie Onu con Banca Mondiale, Russia, Bielorussia e Ucraina, parlò di 65 decessi certi e 4mila vittime di tumori e leucemie collegabili alle radiazioni. La Iarc, agenzia anticancro dell’Oms, nel 2006 fece una proiezione che prevedeva 25mila casi di cancro, di cui 16mila fatali, entro il 2085.

Secondo alcuni studi promossi da associazioni ambientaliste (come il Torch 2016), è verosimile che centinaia di migliaia di casi di tumori e un numero di vittime che potrebbe arrivare alle 40mila. Basti solo pensare che, dall’incidente ad oggi, sono 600mila le persone impegnate in attività di emergenza o recupero attorno alla centrale e nelle aree contaminate.
Quel che è certo, finora, è che nel 2011 l’Unscear, comitato scientifico dell’Onu dedicato ai rischi da radiazioni, rilevò 6mila casi di cancro alla tiroide fra i bambini bielorussi.

IL FOLLOW UP SANITARIO. Le stime e il numero reale delle vittime sono rese difficili anche perché dal 2005 sono terminate le analisi scientifiche sulla popolazione per accertare lo sviluppo di malattie connesse all’esposizione di radiazioni. “C’è un’intera generazione nata dopo Chernobyl – spiega Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace – che ha diritto ad essere seguita dal punto di vista sanitario e possibilmente a mangiare anche cibi completamente non contaminati”.

LE ZONE INUTILIZZABILI. Secondo il rapporto “Chernobyl: 30 years later” di Greenpeace, sono 10mila i chilometri quadrati inutilizzabili per attività economiche dovuti al disastro, mentre sono ben 150mila i chilometri quadrati ancora contaminati tra Bielorussia, Russia e Ucraina, dove vivono circa 5 milioni di persone.
Attorno al reattore, in un’area di 30 chilometri, vige la “zona di esclusione”: una zona in cui è proibita qualunque attività umana a causa dell’alto livello di contaminazione e della presenza di circa 800 depositi di materiale a bassa radioattività e dello stagno artificiale, parte dei sistemi di raffreddamento della centrale, con acqua gravemente contaminata. Eppure, in quell’area, migliaia di persone lavorano ogni giorno e un centinaio di anziani vive stabilmente.

LA CONTAMINAZIONE DEI CIBI E L’AGRICOLTURA. Nel corso degli anni è calata sensibilmente la contaminazione di cesio-137, uno dei materiali radioattivi, nei funghi. Il livello, però, resta fuorilegge in alimenti come latte e carne bovine, come denuncia Greenpeace grazie al lavoro sul campo effettuato nella regione ucraina di Rivne.
“Un rischio ulteriore – racconta Onufrio  – è rappresentato dagli incendi nelle aree boschive attorno al reattore, che potrebbero riportare in atmosfera agenti radioattivi”.