Abbiamo sentito storie di tutti i tipi per RiArt oggi scopriremo una storia tanto importante quanto pesante raccontata ai nostri microfoni dagli Zemsa, musicisti bolognesi partecipanti a RiArt artisti uniti contro il riarmo.

Zemsa: il bisogno di raccontare

Alberto e Paolo, questi i nomi dei fratelli che compongono il duo musicale Zemsa, lavorano in armonia vedendo Paolo comporre la musica sulla quale poi Alberto appoggerà la sua voce, creando una commistione complementare tra le capacità dei due musicisti. Non c’è da stupirsi dato il legame di sangue che li unisce, da ancor prima che, per quanto sia successo in giovane età, la musica li rapisse, e ancora celebrano questo legame di ricordi portando un nome che omaggia la nonna che usava chiamare in dialetto bolognese le cimici, chiamandole appunto zemse.

I due si approcciano alla musica con l’idea di esporsi chiaramente con le loro idee ed emozioni, pur lasciando all’ascoltatore la totale libertà di interpretazione dei propri testi. Sentirono in particolare il bisogno di esprimersi leggendo la storia di Solo Cesàr, venendo colpiti, al momento della lettura, da quella sensazione di solitudine e angoscia che sempre più spesso, questi tempi di guerra ti inculcano nel cervello. Solitudine e angoscia sono proprio le sensazioni principali evocate da questa canzone, suonando quasi come il canto di un pellegrino nei deserti arabi, che cantando della sua solitudine raggiunge viaggiatori distanti, aiutandoli a rendersi conto di non essere infine così soli, risultando così un richiamo a proseguire la propria strada, mantenendo chiara in mente la consapevolezza del proprio obbiettivo, e di non essere gli unici nel farlo, scappando da questa angoscia dilagante.

ascolta la Solo Cesar:

Solo Cesàr: Non voltarsi dall’altra parte

Una storia vera, quella che ispira questa canzone, la storia di Solo Cesàr, pseudonimo di un ex fotografo forense della polizia militare di Damasco, incaricato di fotografare scene del crimine, fino al 2011 anno in cui la primavera araba giunse con le sue fiamme della rivoluzione in Siria. Cesàr fortunatamente riuscì a fuggire nel 2013, dopo due anni passati con l’incarico di fotografare i risultati delle torture brutali e barbariche esecuzioni riservate ai manifestanti nelle carceri siriane. Mansione dal peso psicologico ed emotivo gargantuesco, davanti al quale non girò la testa dall’altro lato, ma creò delle copie delle immagini scattate in quei mattatoi, con l’unico obbiettivo di divulgarle, e far vedere al mondo tutto ciò stava accadendo. Scelta che lo mise in pericolo, la polizia militare non avrebbe ben reagito alla scoperta dell’iniziativa del fotografo, oggi un esempio di come per quanto poco incisivo possa essere il nostro sforzo possa essere, nel grande ordine delle cose, sia sempre necessario.

ascolta l’intervista agli Zemsa: