Molte le attese in cartellone, ma il vecchio batterista olandese e il pianista di Philadelphia brillano tra le tante proposte in passerella

Di prima mattina saliamo il monte per incontrare il concerto in alpeggio locato al capolinea della Seggiovia. Splende il sole, le cime alpine giganteggiano, i fiori sgargianti nei vasi colorano la giornata, la birra scorre a fiumi e il “Groove” di Sokal riempie di Blues Brother l’aria.  L’organo Hammond di Raphael Wressnig riporta i valligiani per caso  al soul anni ’60. L’atmosfera  e’ di festa e ci ricorda che la musica e’ innanzitutto gioia e stupore.
Scendiamo la vetta e ci sprofondiamo nel buio degli Short Cuts con il trio austro-tedesco Rupp/Muller/Fischerlehner , tre giovani professionisti dediti all’improvvisazione integrale con serietà’ ed inventiva. Il trombone di Muller tiene le linee melodiche più distinguibili, mentre la chitarra elettrica di Rupp si distingue per i  complessi accordi intercalati dalle improvvisazioni sperimentali. Chiude la batteria con immancabili accenti provenienti da esperienze rock.
A seguire due nomi importanti con il duo Uri Caine / Han Bennink. Come sapranno sommarsi l’uomo delle revisitazioni classicistiche e l’Elfo di Amsterdam, signore delle mille percussioni? L’esperimento riesce alla grande e la magia si  ripete: le note si legano e due diversi percorsi musicali si fondono con una apparente semplicità davvero sorprendente. Le scorribande “colte” di Caine trovano nell’antico drumming di Bennink un immediato interlocutore, pronto a cercare quegli accenti ritmici per rimbalzare la palla al pianista. Caine suona anche la tastiera elettronica, mentre Han Bennink si avvale anche di un tavolino da bar, di una bandana rossa a mo’ di kamikaze, di una bacchetta in bocca con sputo e scarponi + una rinnovata fantasia ritmica che sembra non avere confini.
Il set si snoda con Monk, Mahler, Mozart e, per finire, con un ottimo Scott Joplin d’annata con Meaple Leaf Rag. Così Caine porta la classicità sul palco e Bennink i tamburi sotto i piedi (non in senso metaforico!)
La prima Big Band sulla ribalta pomeridiana e’ quella del pianista Brian Haas con “The race root suite”, lavoro composto dal chitarrista Chris Combs. La rivolta razziale raccontata in musica prende forma nell’improvvisazione collettiva stile New Orleans, dove i fiati ricostruiscono un’atmosfera di epopea americana, alternandosi alle “gimnopedies stride” intonate dal piano di Haas. Buona la fattura generale, peccato che non sempre i solisti sappiano dare un ulteriore apporto al tutto e che la partitura a volte si ripeta uguale a se stessa in troppi suoi momenti, segno di una debolezza di scrittura.
L’alternanza musicale intercala dopo il pieno di una Big Band il vuoto di un esibizione per piano solo con John Medeski con la sua “A different time“.  Il pianista percorre nel recital un vasto panorama di America musicale, dalle reminiscenza di Porgy & Bess, all’immancabile tema monkiano, passando per una rilettura del glorioso “I‘m believer” degli antichi Monkees al tempo del beatMedeski ha voluto presentare dal suo ultimo disco proprio “A Different Time“, delicata song fatta di una sottile linea melodica pronunciata a fil di voce pianistica.
Cambio scena e cambio musica: e’ il momento di “Big Rain” (facile previsione qui a Saalfelden!) con Franz Hautzinger alla tromba,Tacuma al basso elettrico, Hamid Drake alla batteria e Keji Haino alla chitarra.  Ancora una volta è l’impostazione davisiana a farla da padrone, con la giapponese che non rinuncia alle sue provocazioni/ricerca sonore, spezzando l’incedere lineare del set e creando un elemento estraniante rispetto al più che frequentato modus del grande Miles.
Maggiore attesa invece si respira per “Ten Fredom Summers”, opera di Wadada Leo Smith che qui viene presentata con il Golden Quartetto & Pacifical Red Coral.
Da segnalare la presenza sul palco del pianista Anthony Davis, con John Lindberg al basso e Pheroan akLaff alla batteria. Di fronte a loro un gruppo di archi + arpa a vocazione musica contemporanea. Così i due organici si confrontano sullo spartito di Smith in una dinamica divisa in segmenti esasperanti, dove solo a tratti il leader interviene con la bella sonorità della sua tromba. Il tutto commentato dalle immagini proiettate nel grande schermo dalle elaborazioni elettroniche curate da Jesse Gilberto: sulle geometrie spezzate proiettate appaiono gli ectoplasmi di volti dei musicisti impegnati nell’esecuzione. Ma non basta questo supporto visivo a riscattare la musica: esistono sicuramente momenti di valore in questa “Ten Fredom Summers”, ma l’operazione alla fine risulta velleitaria ed autoreferenziale.

Accoglie un applauso liberatorio l’arrivo del Iiro Rantala String Trio, una piccola formazione che presenta un sound in bilico tra una musica da camera, il cafè chantant e, perchè no, anche il jazz.

L’atmosfera è dolce (pure troppo) e viene ben impersonata dal piano di Rantala, mentra la croata Asja Valcic tiene la liricità con le corde del suo violoncello. Adam Baldych alla viola forse è il solista di maggiore vaglia, con una capacità swingante ben dimostrata in una Caravan di ellingtoniana memoria rivissuta con un tocco alla Grappelli.

A notte ormai inoltrata arriva il chitarrista Jon Madof e il suo “Jewish Afro Beat”. Di cosa si tratta? Immaginate di prendere un gruppo africano anni ’80, tipo Tourè Kunda, e di portarlo in una sinagoga con un rabbino moderno che ama il rock, prendete il tutto e conditelo con una band d’eccezione ed avrete il Jewish Afro Beat: linee melodiche e costruzioni orchestrali molto semplici e ballabili, tanta chitarra stile anni ’70, una sezione fiato di lusso ( Matt Darriau, Sarah Manning, Ben Holmes e Briggan Krauss). Chiude una robusta sezione ritmica con Yonadav Halery alla batteria e Marlon Sobol alle tumbas (ma perchè i bonghisti ridono sempre e sono comunque felici?). I brani si snocciolano leggeri con i singoli assoli al centro, mettendo in evidenza la bella tromba di Holmes e il meno prevedibile assolo legato al baritono di Krauss.

Mentre all’interno del teatro l’Africa scalda il pubblico, fuori arriva la preannunciata tempesta per raffreddare i bollenti ardori.

P.S. In questi report noi parliamo solo di teatri e concerti, ma il festival di Saalfelden e’ anche tante altre cose: locations in luoghi magici (vedi il set di Sokal),  Kids Concerts come The Pilot Mr Fridolin, commedia a tutto jazz per i ragazzi, il maxi schermo esterno al teatro con sedie a sdraio e possibilità di ristoro per chi non può accedere al Main Stage, gli incontri  dei musicisti con i ragazzi della scuola di musica locale, il coinvolgimento della città e delle sue attività turistiche: tutte queste cose messe insieme mostrano la validità di una parola che in Italia invece viene oggi disprezzata come “tabù della sinistra del secolo scorso”: Politica Culturale…

formazioni:

Groove

Harry Sokal – tenor & soprano saxophone
Raphael Wressnig – hammond B3 organ
Lukas Knöfler – drums


Olaf Rupp – guitar
Matthias Müller – trombone
Rudi Fischerlehner – drums, 
percussion


Han Bennink – drums
Uri Caine – piano


The Race Riot Suite

Chris Combs lap steel guitar
Jeff Harshbarger – acoustic bass
Brian Haas – piano
Steven Bernstein – trumpet, slide trumpet
Peter Apfelbaum – tenor + baritone saxophone
Mark Southerland – tenor saxophone
Skerik – saxophone
Matt Leland – trombone
Josh Raymer – drums


John Medeski – piano solo

Big Rain

Franz Hautzinger – quartertone trumpet
Keiji Haino – electric guitar
Jamaaladeen Tacuma – electric bass
Hamid Drake – drums

Ten Freedom Summers

Wadada Leo Smith – trumpet, electronics and composition
Anthony Davis – piano
John Lindberg – double bass
Pheeroan akLaff – drums
Andrew Nathaniel-McIntosh – violin
MengNa Tian – violin
Miguel Atwood-Ferguson – viola
Ashley Walters – cello
Maura 
Valenti – harp
Jesse 
Gilbert – video artist


Iiro Rantala String Trio

Iiro Rantala: piano
Adam Baldych: 
violin
Asja Valcic: cello


Zion80 – Jewish Afro Beat

Jon Madof – guitar
Matt Darriau – alto saxophone
Sarah Manning – alto saxophone
Ben 
Holmes – trumpet
Briggan Krauss – bari saxophone
Yoshie Fruchter – guitar
Aram Bajakian – guitar 
Shanir Blumenkranz – bass
Marlon Sobol – percussion
Yonadav Halevy – drums