Microsoft, Apple e tutte le aziende di software proprietario, considerate come migliori esempi di libero mercato, in realtà sono quanto di più lontano ci possa essere. A spiegare perché è Renzo Davoli, guru del software libero.

Quando morì Steve Jobs, la parola più utilizzata per i coccodrilli sui media fu “visionario“, che da vocabolario significa: “colui che concepisce progetti irrealistici o immagina come vere cose che esistono solo nella sua fantasia”.
In realtà, il fondatore di Apple attinse da pratiche autoritarie e vecchie come il mondo, come prendere beni comuni e conoscenze collettive e ricondurle sotto la propria proprietà allo scopo di trarne profitto.
Se ci fermiamo a pensare, è curioso ed inquietante che alcuni dei principali imperi economici del libero mercato, come la stessa Apple, insieme a Microsoft ed altre aziende, in realtà siano quanto di più lontano esista dal libero mercato.

Lo spunto di riflessione arriva dalle parole di Renzo Davoli, docente di informatica all’Università di Bologna e considerato un “guru” del sotware libero.
Nell’intervista concessa a Radio Città Fujiko, il professore ha illustrato alcuni fondamenti della filosofia del software libero, ha raccontato quando ha iniziato ad occuparsi di Linux e si è soffermato a lungo anche sul tema del mercato e del modello socio-economico in cui viviamo.
Qualsiasi mercato che si basa sul divieto – spiega Davoli – è un mercato che si basa sul monopolio, è un mercato basato su persone che determinano le fortune e le sfortune di qualcun’altro“.

Dal lato del consumatore, chi ricorre al software proprietario, secondo il docente, è come chi assume farmaci privi del bugiardino, senza sapere cosa c’è dentro e senza la consapevolezza che esiste solo un soggetto al mondo in grado di riparare ai danni o gestire gli effetti collaterali.
Quando il consumatore è un’azienda, usando un software proprietario corre un pericolo per tanti motivi. Ad esempio, può avere nei software che utilizza delle funzionalità non volute di cui ignora l’esistenza, ma rischia anche di essere legata al destino del fornitore, il quale potrebbe fallire.

“Se domani Microsoft fallisse – suppone Davoli – un’azienda che ricorre al suo software può subire gravi ripercussioni e questo fa parte del rischio d’impresa che l’azienda si è assunta. Se ciò accade perché l’imprenditore ha fatto queste scelte per ignoranza mi dispiace, ma fa parte della sua visione poco ampia del mondo”.
Il caso è più grave, però, quando riguarda uno Stato, un’Amministrazione pubblica o una scuola che fanno questo tipo di errore. “Un Comune domani potrebbe dire: mi dispiace, ho perso l’anagrafe? O la sanità potrebbe fermarsi perché nel software mancano gli aggiornamenti?”. Si tratta di responsabilità che un ente pubblico non dovrebbe assumersi.

Dal lato dell’impresa, però, come si fa a fare business se si lascia libero accesso alle sorgenti dei propri prodotti? “Un’azienda guadagna innanzitutto dal suo lavoro, non dal segreto – osserva Davoli – Se una piccola software house fa un programma, può decidere di darlo in licenza proprietaria chiedendo un compenso. Poi avrà un reddito per gli aggiornamenti, un reddito per la formazione e un reddito per l’assicurazione anti-bug, perché quando un software è parte del sistema produttivo chi lo acquista ha bisogno anche di assistenza. Se l’azienda perde il costo di licenza d’uso, le altre entità sono ancora garantite”.
La differenza sta nel fatto che chi sviluppa un software proprietario ha bisogno di altrettanti strumenti proprietari con i costi di licenza. La quantità di materiale per il sotware libero, invece, è molto più ampia e – appunto – libera.

Non è un caso se colossi come Google, Facebook e Twitter usano solo software libero. “Lo fanno perché hanno capito che altrimenti si sarebbero assogettati alla leva commerciale di aziende proprietarie come Microsoft e Apple – spiega Davoli – che, una volta ottenuto il successo, avrebbero potuto farle chiudere o farle diventare un proprio servizio”. La libertà, quindi, per il professore è il valore d’impresa più ampio e non è un caso che il 70% dei siti web più visitati al mondo sia realizzato in software libero e che il 99% dei supercomputer più potenti al mondo utilizzino Linux.

Il discorso di Davoli si traduce anche in cose molto concrete, alcune delle quali fanno parte dei problemi su cui spesso si interroga la politica. Come ad esempio i cervelli in fuga.
“I soldi di una licenza proprietaria – constata il docente – molto spesso vanno altrove, non creano lavoro sul territorio. Non è un caso se i miei migliori laureati li troviamo all’estero. Questo è un problema per uno Stato che ha investito per creare delle competenze, mentre dei ricavi beneficieranno altri“.
Con il software libero, invece, l’intelligenza può restare nel Paese in cui viene prodotta e può generare nuove evoluzioni, nuovi servizi ed innovazione.

Un altro tema su cui spesso si discute, infine, è quello della meritocrazia. “Quando io pubblico il mio software libero – spiega Davoli – pubblico la sorgente attaccata al mio nome. Un professionista metterebbe in giro a suo nome un software fatto male? Succederà quindi che il mercato selezionerà naturalmente il miglior software esistente al mondo”. Cosa che non avviene col software proprietario, poiché in regime di monopolio gli utenti sono obbligati ad utilizzare ciò che viene loro propinato. Il principio della concorrenza basata sul merito, proprio del libero mercato, dunque, viene falsato dalle imprese che fanno della proprietà il proprio modello.

Si può quindi evincere che un modello socio-economico impostato sulla privazione dei saperi è un modello fallimentare, ripiegato su se stesso e strettamente dipendente dai potentati che ottengono l’accesso alle conoscenze e le usano per il proprio profitto e non per il progresso sociale e scientifico.

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