È attesa a giorni – per il prossimo 13 aprile – la pubblicazione di “Banking on Climate Chaos“, il nuovo rapporto sui finanziamenti del settore bancario all’industria dei combustibili fossili. Ogni anno il rapporto redige il conto del denaro che le grandi banche multinazionali investono in progetti climalteranti.
In anteprima nazionale, il testo verrà presentato alla Galleria Europa di Modena, il 13 aprile alle ore 17.00, alla presenza di metereologi, giornalisti e ricercatori in un’iniziativa organizzata da Valori.it e intitolata “La crisi climatica renderà la terra inabitabile?”.

Banking on Climate Chaos, la finanza fossile che aggrava la crisi climatica

«Il rapporto Banking on Climate Chaos esce ogni anno e puntualmente evidenzia la mole di denaro che le banche investono sui combustibili fossili: carbone, petrolio e gas, cioè le tre fonti che ci stanno portando dritti verso la catastrofe climatica, sull’altare dell’approvvigionamento energetico», spiega ai nostri microfoni Andrea Barolini, direttore di Valori.it
Per scoprire i dati dell’edizione 2023 del rapporto occorre attendere giovedì, ma per avere un’idea della questione basta osservare i dati pubblicati in quelle precedenti, che rivelano «che dal 2016 in poi le 60 più grandi banche del mondo hanno destinato più di 4600 miliardi di dollari ai finanziamenti per l’industria fossile: una cifra stratosferica – aggiunge Barolini – Basti pensare che il grande piano di ripresa post-covid – il Next Generation EU dell’Unione Europa – valeva 750 miliardi, di cui solo un terzo destinato a progetti effettivamente compatibili con la lotta ai cambiamenti climatici. I rapporti di forza tra Stati e banche sono completamente sbilanciati».

Questi dati sono ancora più controversi se si considera che – nel pieno di proclami politici e aziendali a favore della transizione ecologica e del Green Deal – le banche continuavano imperterrite a portare avanti il proprio business as usual. «Il conto effettuato dal rapporto parte dal 2016 perché proprio l’anno prima sono stati siglati gli storici Accordi di Parigi sul clima, che hanno certificato la necessità di superare i 2°C di aumento della temperatura alla fine del secolo rispetto ai livelli pre-industriali – continua Barolini – Sono stati gli stessi Stati a certificarlo, per cui, a partire da quel momento, ci si poteva ragionevolmente aspettare un cambio di rotta generale. Eppure non è stato così, tanto più che oltre 1000 miliardi sono stati concessi a nuovi progetti, come la ricerca di nuovi giacimenti e il consumo di fonti fossili immacolate».

Di fronte a delle responsabilità così evidenti da parte dei colossi bancari e in merito alla crisi climatica viene da chiedersi perché non se ne parli abbastanza e cosa potremmo fare per smuovere le acque inquinate della finanza fossile. «Se da un lato è vero che i governi non hanno imposto delle regole sufficientemente stringenti per il settore bancario, è vero allo stesso modo che i governi li eleggiamo noi – ammonisce il direttore di Valori.it – La responsabilità è anche nostra, che quando andiamo ad aprire un conto corrente ci informiamo sul costo dei bonifici, della carta di credito o del canone annuale, ma non chiediamo mai cosa ne fanno dei nostri soldi. Se lo facessimo, spesso scopriremmo che vengono investiti in progetti ecocidi e climalteranti, come le trivellazioni nell’Artico».

Il ruolo giocato dalle italiane Unicredit e Intesa

«Nell’elenco di quelle 60 banche ci sono anche i due principali colossi italiani, Intesa San Paolo e Unicredit. Pur se non ai livelli delle banche americane, anche loro contribuiscono a questo fenomeno», evidenzia Barolini.
Entrambe si sono rese partecipi di iniziative internazionali legate alla sostenibilità e all’obiettivo emissioni zero – come i Principles for Responsible Banking e la Net-Zero Banking Alliance – ma secondo l’edizione 2022 di Banking on Climate Chaos hanno stanziato complessivamente 54 miliardi per progetti di combustione fossile: una percentuale risibile sul totale di 4600, ma che rappresenta comunque una fetta importante del business delle due banche. I dati riportati nel rapporto mostrano come di questi 54 miliardi, 18 siano stati investiti da Intesa San Paolo (di cui 1.2 per trivellare l’Artico, 2.2 a gas e petrolio offshore e 5.4 per l’espansione della produzione fossile) e i restanti 36 da Unicredit (di cui 2.8 nella trivellazione artica, 3.8 nei giacimenti offshore e 8 per espandere la produzione).

Le belle notizie, tuttavia, ci sono. Il 2021 è stato l’anno in cui Intesa ha finalmente fermato con effetto immediato tutti i nuovi finanziamenti per l’estrazione del carbone in vista dell’eliminazione graduale (in gergo tecnico “phase out”) entro il 2025. Per le risorse oil&gas non convenzionali, invece, l’addio definitivo è spostato al 2030. La sua diretta competitor, Unicredit, a gennaio 2022 ha invece rivisto le proprie policy sul finanziamento di giacimenti non convenzionali, rendendole più solide e proteggendo i confini artici più rilevanti per il clima – pur glissando sul fatto che l’estensione complessiva delle aree di suo interesse è molto più ampia.

ASCOLTA L’INTERVISTA AD ANDREA BAROLINI:

Andrea Mancuso