Burnout e lavoro educativo, una diade inscindibile?

Il lavoro educativo è, per sua stessa natura, un lavoro a rischio di burnout e stress da lavoro correlato. Tuttavia, in questo particolare momento storico, a questa sua caratteristica intrinseca, si vanno ad aggiungere problematiche legate ai mutamenti socio-culturali dell’utenza e a tutti quei fattori organizzativi e “sindacali” che rendono ancora più complesso e pesante il fardello che il lavoratore deve sostenere sulle proprie spalle. Abbiamo provato ad analizzare il fenomeno con la lente sociologica, spostando l’attenzione dai fattori individuali o legati al microcosmo della situazione singola e specifica, a quelli più ampi della cornice organizzativa e della collettività. Lo abbiamo fatto con la collaborazione di Serena Saggiomo, psicologa psicoterapeuta e dei contributi di Chiara Saraceno, voce storica della sociologia italiana, esperta di Welfare e lavoro sociale, e di Gianluca De Angelis, sociologo e ricercatore Ires che si occupa da tempo di “lavoro povero”.

I fattori organizzativi incidono sul Burnout? E’ possibile attuare un tipo di prevenzione primaria, ovvero modificare il contesto e la cornice organizzativa prima che al lavoratore arrivino le prime avvisaglie di disturbo? O forse, è più plausibile attuare interventi volti a intercettare i primi segnali di malessere e intervenire di conseguenza (prevenzione secondaria)? Queste le domande fondamentali. Dalle interviste da noi raccolte, sembra tuttavia che il burnout venga trattato esclusivamente come un problema individuale, una responsabilità (che sovente lo stesso lavoratore vive come “colpa”) del singolo che, nel caso riuscisse a intercettare per tempo il proprio malessere, dovrebbe poi essere capace di trovare autonomamente le strategie adatte a mantenere l’equilibrio. Conosciamo la fine di un percorso del genere: nel migliore dei casi lasciando ore di lavoro con conseguente perdita di salario, nel peggiore, quando il “sentirsi solo” diventa insopportabile, con il totale abbandono del posto di lavoro.

Quanto incide tale dinamica sull’attuale crisi della professione educativa che tra l’altro, si sta manifestando con il fenomeno delle “grandi dimissioni” e della fuga dal mondo educativo? In quest’epoca stiamo assistendo alla nascita di nuove consapevolezze e mobilitazioni che hanno come comun denominatore la richiesta di condizioni salariali più eque, di un più giusto bilanciamento tra “propria vita” e tempo lavorativo, ma tutto questo sembra sempre riguardare altre professioni, altri mestieri, distanti da noi.  Il mondo educativo sembra mantenersi ai margini di questa tendenza e sembra trovare difficoltà nel “collettivizzare” il proprio malcontento che continua a essere vissuto in un’ottica individuale e individualista, figlia di un’impostazione capitalista, la stessa che ha stravolto radicalmente il senso del mondo dei lavori di cura, trasformandoli in una mera fonte di profitto.

L’educatore è chiamato a lavorare mettendo tutto sé stesso, tutto il suo talento, la sua formazione, la sua emotività, il suo intuito nel lavoro che svolge, salvo poi dover sottostare a dinamiche prettamente economiche e totalmente slegate da ciò che può rappresentare e contenere la ricchezza della “relazione educativa”. La prof.ssa Saraceno ci ha aiutato a ripercorrere le varie fasi del cambiamento del “mestiere educativo” (mestiere legittimamente e simbolicamente definito “impossibile”) negli ultimi venti anni, un periodo breve ma sicuramente denso di trasformazioni, crisi e rivoluzioni che ne hanno modificato il suo posizionamento all’interno dell’organizzazione sociale. 

Il lavoro di cura è un lavoro che necessita di lentezza, riflessione individuale e di gruppo, di uno spazio di comprensione e di “riposo”. Tali necessità si scontrano necessariamente con una cornice che pretende di trasformare la relazione in guadagno, di massimizzare i risultati minimizzando tempi e costi. Tuttavia, dopo decenni in cui in ogni cosa ha avuto come motore unico l’ideologia del profitto, è proprio il lavoro educativo quello che ha le caratteristiche per diventare il portatore di un nuovo paradigma, il paradigma della cura su cui sia possibile costruire, finalmente, una società diversa.