Nella sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole fino al 12 marzo in scena Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello, produzione della Fondazione Teatro di Napoli- Teatro Bellini per la Regia di Gabriele Russo, in scena Daniele Russo, nei panni di Jennifer e Sergio Del Prete in quelli di una vicina, Anna, ma anche presenza fantasmatica che rappresenta forse la doppia anima di Jennifer o la sua coscienza, talora una evocazione del suo amante.

Colpisce, ancor prima dell’inizio dello spettacolo, la scenografia che presenta in proscenio un divano rosso circolare con diverse sedute occupate da cuscini colorati, un tavolo tondo ricoperto con quella che sembra una tovaglia rossa con diverse balze, più in fondo un baule, anch’esso rosso in pendenza a far scorgere alcune scatole in esso contenute, una toletta rosa e poi abiti sparsi, oggetti a terra sopra la moquette nera.

Suona il telefono e un uomo si precipita dentro casa con la sporta della spesa. Nel tentativo di raggiungere il telefono l’uomo travolge gli oggetti sul tavolo gettandoli a terra. Il personaggio in abiti maschili è Jennifer, aspetta una telefonata dal suo Franco, ma ogni volta che il telefono squilla arriva, cocente, una nuova delusione. Ci sono strane interferenze: componendo i numeri degli abitanti di quel quartiere rispondono persone diverse da quelle desiderate. Apprendiamo nel corso delle telefonate che Jennifer passa le giornate rispondendo a chiamate che non sono per lei finendo per imparare a memoria i nomi e numeri di telefono di tutte le vicine. Jennifer è ansiosa di lasciare la linea libera per poter ricevere la tanto sospirata chiamata dal suo fidanzato, conosciuto in discoteca un venerdì sera di tre mesi prima, ma ogni telefonata ricevuta diventa occasione di una chiacchierata con chi l’ha involontariamemte chiamata. Talora la discussione è piacevole e giocosa, altre volte finisce in insulti e bestemmie proposte a rallentatore, mute, con una gestualità esplicita ed esasperata, accentuata da un cambio di musica e di luci.

Jennifer, una volta tornata a casa con la spesa, dismette gli abiti maschili restando prima con una tutina rossa e calze a rete, indossando poi quella che credevamo una tovaglia, che si rivela invece essere una vaporosa vestaglia in stile spagnoleggiante utilizzata da quel momento come strumento narrativo per esprimere ogni emozione provata. Tacchi alti, fin troppo alti, trucco esagerato, anzi sbavato e eccessivamente caricato, la vestaglia superbamente vistosa, tutto rimanda a una femminilità cercata, sognata, esibita, affermata con tutte le forze per somigliare a quella che nella sua mente è realtà. Il fidanzato con cui è certa di doversi sposare a breve e che confida torni presto da lei esiste probabilmente solo nella sua immagianzione, visto che la cornice che stringe al cuore e bacia è vuota. Franco non chiama nè si presenta a farle visita e Jennifer sprofonda in una malinconia da cui la risollevano solo le canzoni che arrivano dalla radio e che canta a squarcia gola storpiando tutte le parole.

L’emittente radiofonica ascoltata sembra essere la voce delle abitanti del quartiere attraverso le canzoni a richiesta dedicate ai propri amori, l’unica interlocutrice a cui rivelare le proprie angosce e la propria solitudine. Il quartiere, scombussolato dai disguidi sulla rete telefonica è il quartiere dei travestiti e la trasmissione radio ascoltata da Jennifer è condotta da una trans ed è seguita dalle altre trans dei dintorni. La notizia più ricorrente è quella delle morti violente di trans, uccise, si pensa, da una serial killer, anch’essa probabilmente trans che si accanisce sulle abitanti del quartiere.

Ma a Jennifer i brividi di paura non li mette tanto il o la maniaca omicida, quanto piuttosto l’ipotesi di perdere il suo amore. “Se perdo te” risuona nella sua testa ossessivamente insieme alla voce di Patty Pravo, questa la sua quotidiana richiesta alla radio, fidente che l’innamorato torni da Genova per sposarla. Cosa fare di tanto amore che si sente dentro, dove dirigerlo, che fare di una vita senza amore, questa è la vera domanda al centro del testo. La vicina Anna dedica tutte le proprie attenzioni e tutto il suo amore alla sua gatta con cui divide, la sera, l’insalata russa e il letto. Jennifer ha una cornice vuota che rappresenta l’amore per Franco, ha i suoi rituali d’amore che la portano ad attenderlo ogni sera con l’abito più bello, l’abito più nero, con le scarpe con il tacco a spillo e il cinturino, scialle nero e parrucca.

Lo spettacolo è divertente, le conversazioni telefoniche suscitano il riso e riempiono di curiosità sulla vita degli interlocutori di Jennifer, le canzoni d’amore con la voce di Mina, della Vanoni e Patty Pravo riempiono di malinconia e di voglia di cantare anche l’uditorio. I colori rosso e nero nella scenografia e nei costumi sono così netti, così violenti e decisi che caricano l’atmosfera di passione, di desiderio, di rabbia, di violenza, disperazione e oscurità. I sentimenti che animano Jennifer sono estremi come quei rossi e quei neri.

Nella percezione di Jennifer quella sera è la sera decisiva, l’attesa di Franco, che dura da oltre tre mesi, è diventata insostenibile, l’ansia è al culmine, non potrà esserci un’alba per lei e per il loro amore. Si veste da prostituta e mette in borsa una pistola, pensiamo sia per proteggersi dal folle omicida che gira per il quartiere. Sta per uscire ma va via la corrente, resta al buio. Temiamo che arrivi qualcuno ad ucciderla, ma è la vicina Anna che entra sì con un coltello in mano e minaccia di ucciderla, ma nella convizione che sia stata Jennifer ad ucciderle l’unico oggetto d’amore che avesse, la sua gatta. La vicina si calma e zoppicando con una scarpa sì e una no, se ne va. Il male oscuro però non viene da fuori, ma da dentro. Morire contornate da cinque rose rosse è per le trans del quartiere l’unico gesto di libertà in una situazione di prigionia, di solitudine in una Napoli che le ha ghettizzate. L’atteso colpo di pistola arriva infine, ma a premere il grilletto è la protagonista stessa ammalata di una disperata solitudine.

Il telefono suqilla, suqillerà a vuoto perchè ormai non ha più importanza se sia realmente Franco o l’ennesimo scocciatore che ha sbagliato numero. Gli applausi arrivano scroscianti per i due attori, per la vorticosa regia, per la bellissima scenografia e per l’idea stessa dello spettacolo che, scritto e interpretato nel 1980 dal giovane Annibale Ruccello, arriva a noi oggi per nulla invecchiato nonostante i telefoni siano molto diversi, non ci siano più quei disguidi nelle linee telefoniche casalinghe e le radio siano digitali. Resta la solitudine delle persone emarginate, ghettizzate, resta la disperazione e la dissociazione tra amori reali e virtuali, resta la ricerca di affermazione di una propria identità oltre i generi o forse estremizzando il genere in cui ci si riconosce, fino a combaciare con l’idea che si ha del genere a cui si sente di appartenere anche al prezzo di inventare la vita che si sarebbe voluta vivere, anche se vita di dolori, dolori del parto, degli abbandoni e divorzi, dolori del ciclo o sospiri della menopausa. Desiderare di essere donna per Jennifer è già esserlo, raccontare dei figli immaginati, dei due ex mariti e dei fastidi del flusso mensile è già aver vissuto tutto questo con la stessa intensità dell’amore presente per Franco. Una volta entrato nel suo monolocale Jennifer è Jennifer, non ha nessuna importanza cosa sia reale e cosa immaginato. Reale è il dolore e lo struggimento per il suo amore, reale è il desiderio e la delusione, reale è l’insopportabile sofferenza per l’assenza dell’oggetto d’amore.